domenica, Dicembre 22, 2024

Paris, Texas di Wim Wenders: la recensione

Travis (Harry Dean Stanton) riemerge dal silenzio di quattro anni nel deserto messicano, al confine col Texas, angolo di polvere ocra e pietre nel profondo sud-ovest degli States.

Beve l’ultima goccia d’acqua e butta la tanica vuota. Sguardo vitreo e vestito stazzonato, cammina spedito come uno che sa dove andare.
Un tugurio si materializza nella solitudine infinita del luogo, si scoprirà poi che è una “clinica”. Un improbabile dottore, venale e alcolizzato quanto basta, vive lì, e tutto questo a quelle latitudini sembra perfino normale. Ma il Wenders americano crede a queste epifanie del nulla, se ancora nel 2002 una clinica appare nel deserto, assurdamente chiusa per il week end, in Twelve Miles to Trona (Ten Minutes Older.The Trumpet).

Comunque Travis entra, c’è del ghiaccio in frigo, lo succhia avido e crolla a terra che sembra stecchito.
Ma chi è Travis e perché si trova lì? Qualcuno in passato (ma quanto passato?) gli ha venduto per corrispondenza un pezzetto di terra dalle parti di Paris, e forse lui ha camminato tanto solo per trovarlo. Paris, Texas, naturalmente.
Un foglietto gualcito che porta addosso basta al dottore per chiamare un numero. Walt (Dean Stockwell), il fratello, si precipita dalla California e, dopo aver pagato un conto salato, se lo porta via. Non senza difficoltà, però. Travis non parla, non ha reazioni, scappa a ripetizione, riacciuffato miracolosamente ai bordi dell’autostrada o lungo i binari di una ferrovia, si fa caricare docile in macchina, ma di volare non ne vuol sapere, quasi temesse di perdere il contatto con la terra.
Le scarpe, infatti, sono il suo feticcio, si vedrà più avanti a casa del fratello, quando ne spazzola e lucida una decina di paia e le allinea sul muretto al sole. Dunque si va in macchina, dal Texas alla California, alla periferia di Los Angeles, nella comoda villetta che costa un occhio di mutuo al fratello giudizioso e lavoratore.

Viaggio allucinante di due giorni scambiando una sola parola, Paris. La testa di Travis ruota intorno a quel nome, è ferma in un’ossessione puntigliosa, una catatonica convergenza di tutto il suo essere verso quel punto dello spazio.
Un film lento e amaro, Paris, Texas, a cominciare dal titolo. Una virgola, e la distanza tra reale e irreale si fa incolmabile. La Ville Lumière e un angolo arido di Texas, a cui qualche buontempone, o qualche nostalgico, ha dato il nome di Paris.

Ma quello è il posto dove Travis, un giorno, fu concepito. Lì la madre gli ha detto di aver fatto l’amore col padre la prima volta.
E Travis lo racconta al fratello lungo la strada. Così dunque è cominciata la sua presenza in questo mondo, e sembra sia la cosa che lo riguarda di più, l’unica che gli accende lo sguardo. In quell’angolo sperduto della terra  voleva costruire una casa per sè, per Jane (Nastassja Kinski) e per Alex, il figlio che ora ha otto anni (Hunter Carson) e vive con gli zii che chiama mamma e papà. Ma poi le cose andarono diversamente, e quel pezzo di terra è solo una vecchia foto.
C’è una regressione in corso, un ritorno alla terra, alle radici sotterranee, un bisogno di purezza originaria che Travis ha tradotto in fuga, quattro anni prima, quando il suo mondo, che sembrava felice, cominciò a cadergli in frantumi intorno.
Un giorno qualcosa si è spezzato per sempre in quella famigliola felice che il filmino rivisto a casa del fratello ha ripreso in gita al mare. Cercare ragioni plausibili per la fine di tutto è esercizio sterile, non ci sono parole per spiegare certi naufragi, si guardano e si chiudono gli occhi.
C’è, in Paris, Texas, l’America di frontiera dei racconti di Carver e dei paesaggi muti di Hopper, un deserto spaziale ed esistenziale di lunghe strade vuote, infiniti chilometri tra una città e l’altra, un motel e una pompa di benzina, unici avamposti della modernità.
E’ l’America del “grande sonno”, avvolta in enigmatiche atmosfere noir, dove trovare improbabili seppur reali cliniche nel deserto è possibile come un miraggio che si avvera.
E’ l’America dove nevrosi e alcolismo, angoscia e frustrazione convivono in un cupo cuore selvatico, ma possono anche sciogliersi in forme di tenerezza ruvida, o di amore, in qualche modo. E allora un padre e un bambino per un po’ si possono ritrovare e imparare a giocare insieme, un uomo e la sua donna, finita in un peep show che stride beffardo con la sua bellezza angelica, riescono per la prima volta a parlarsi, ma separati da uno schermo che sovrappone le loro due facce.
Famiglie disfunzionali, destini individuali, storie di fuga e di ritorno, e poi ancora di fuga.
Paris, Texas è uno sguardo nel vuoto. Travis ce l’ha nell’anima quel vuoto, è nato con lui ed è cresciuto nel tempo fino a scoppiare.
La madre è il suo ricordo più intenso, tutto comincia da lì. Poi è arrivata Jane, un grande amore, e il piccolo Alex, ma quel grumo oscuro cercava la strada per venir fuori, e l’ha trovata.

Il resto è storia nota e Wenders la racconta ad anello. Tra i due estremi che arriveranno a toccarsi per chiudere il cerchio c’è un microcosmo di sofferenza muta e di pienezza che preme per ricominciare a pulsare, e in parte riesce.
La parola torna, il sorriso è abbozzato, la madre e il bambino s’incontrano e resteranno insieme.
Ma fra Messico, Texas e California Travis ha compiuto il cammino della riscoperta di sé, e anche se sembra abbandonarsi alla vita e ritrovarne il senso, è solo questione di attimi. Ora che i nodi sono sciolti, le cose dette, le pedine ricollocate in buon ordine sulla scacchiera, non resta che partire di nuovo. Travis deve riprendere il sentiero verso il nulla (verso la cascata, direbbe Carver).
Paris, Texas, forse, è la meta, da qualche parte nel deserto del sud-ovest riuscirà a trovarla.

Scritto da Sam Shepard, una sola nota di chitarra twangy di Ry Cooder alla colonna sonora, Robby Müller con la sua macchina fotografica incandescente e visionaria a dar forma di cinema allo scenario fantastico di Edward Hopper, il pittore che “dipinge il silenzio”, Paris,Texas vive di antitesi.

The Physical Face of America è un susseguirsi di immagini urbane e desertiche ridotte ad estrema sintesi, spazi reali che diventano metafisici, luci forti, taglienti, colori acidi, rare figure sulla scena, avvolte nel silenzio di una solitudine inerte. Il breve intermezzo del sogno piccolo borghese americano, la villetta del fratello e della cognata (Aurore Clément) dove il piccolo Alex vive con i genitori surrogati, sfuma presto nell’inconsistenza. Quel che resta è la gabbia di Travis, l’uomo in bilico sul crinale labile tra l’essere e il nulla, il suo cupio dissolvi viene da troppo lontano per fermarsi e ricominciare da capo a vivere.

Il figlio, sì, è una certezza, ha bisogno di lui, l’amore per Jane è ancora immenso, lacerante, deve fare qualcosa per loro, e lo fa, ma poi il nulla lo risucchia, e sarà per sempre. E’ quello che  Jung chiamò “il costante substrato dell’esistenza”: “… I suoi principi non sono semplicemente qualcosa che appartiene al passato, ma vivono in lui come il costante substrato della sua esistenza, plasmandone la coscienza almeno tanto quanto il mondo fisico che lo circonda”.

Storia di perdita, di capacità di provare amore ma di incapacità a viverlo, film di frontiera che disegna nello spazio le traiettorie ininterrotte del protagonista sullo sfondo blu del cielo e arancione del deserto, è un triste blues nella notte dell’Ovest, è l’urlo di Ginsberg, I’m with you in Rockland, were you’re madder than I am…
… nei miei sogni arrivi in lacrime, gocciolante, dalla crociera della traversata in autostrada dell’America alla porta del mio cottage nella notte dell’Ovest…”.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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