La risata in “Parlami di Te” è più un corollario imprevedibile che una caratteristica identitaria molto riconoscibile. Le situazioni comiche di questo film francese affettuoso, ingenuo e comunque molto simpatico sono infatti inserite nello schema delle conseguenze involontarie, nel territorio dell’occasionale ripetuto senza ordine.
Il film di Hervé Mimran non insegue la comicità come obiettivo ultimo e non si serve di una meccanica di precisione umoristica in grado di modificare lo stato d’animo dello spettatore, preferisce invece considerare la leggerezza della commedia come un tono su cui incordare il racconto di una vita, una spinta per suggerire l’empatia nei confronti di una piccola avventura da articolo di giornale, da aneddotica curiosa tra amici.
La storia vera di Christian Streiff non è niente più di questo: una simpatica vicenda, un gioco di buoni sentimenti trasportato nella finzione cinematografica nel corpo imprevedibile del suo attore protagonista, Fabrice Luchini, e nella trama molto convenzionale incentrata sulla redenzione del suo personaggio.
Alain Wapler è una macchina da lavoro inarrestabile che sacrifica famiglia e salute per lavorare senza sosta al lancio del nuovo modello elettrico della casa automobilistica per cui lavora; almeno fino a quando un ictus ridimensiona la sua visione del mondo, delle persone e del suo linguaggio.
“Parlami di Te” è tutto cucito in questa premessa e in questo arco narrativo, che corrisponde alla descrizione dell’antipatia del personaggio, alla sua débâcle fisica e poi alla sua curva di apprendimento del bene morale mediante l’incontro con una ortofonista.
Non ci sono svolte considerevoli, improvvisazioni, deviazioni concettuali ambiziose o alzate di tono nell’impostazione drammaturgica del film, che invece dall’inizio alla fine si estende su una frequenza inoffensiva e ingenua, molto prevedibile e allo stesso tempo accogliente. Il film si dipana con l’elasticità di un sorriso sincero che crede nella propria generosa bontà e colleziona i suoi migliori risultati nei momenti in cui la sincerità della storia raggiunge culmini emozionati.
Ci si diverte soprattutto per merito di Luchini. L’ictus colpisce la capacità linguistica del suo personaggio e lo costringe a vivere in un labirinto di refusi. La risata involontaria scatta grazie alla semplicità apparente con cui l’attore francese – che ammorbidisce con maestria anche i comportamenti più antipatici traducendoli in eccentricità – piega il contesto, le relazioni, gli eventi attraverso l’uso di una parlata dislessica dirompente che rilegge la grammatica delle relazioni e provoca una continua imprevedibilità comica.
La crescita del personaggio è quindi prevedibile nei minimi dettagli ma allo stesso tempo perfettamente godibile e c’è in questo scarto di senso la qualità del lavoro attoriale: la capacità di leggere al contrario lo sviluppo telefonato, di emozionare facendo un film dentro al film, inventandosi un linguaggio capace allo stesso tempo di porre all’attenzione la natura radicale (perché in primis linguistica) del cambiamento e di provocare un sorriso sghembo, raffinato e gentile.