“Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri”
Delle parole di Pier Paolo Pasolini pronunciate il 1 novembre del 1975, poche ore prima di essere assassinato e pubblicate da Furio Colombo nell’intervista per “La Stampa” circa una settimana dopo, nel film di Abel Ferrara sono riportati alcuni frammenti; di li a poco lo scrittore Bolognese si sarebbe dovuto recare al congresso dei Radicali “quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese“.
È una delle tracce “eretiche” che il regista newyorchese non cita direttamente dalla stessa intervista, ma coglie in due momenti diversi, quando Pasolini (Willem Dafoe) chiede alla cugina Graziella Chiarcossi (Giada Colagrande) di inserire alcuni suoi appunti nel discorso per il congresso radicale, e poco dopo mentre scrive a macchina, inquadrando una copia de “la scomparsa di Majorana“, romanzo scritto proprio quell’anno da un altro eretico, Leonardo Sciascia.
Sono solo alcuni dei frammenti documentali, dei ricordi personali, dei frammenti letterari ricombinati da Abel Ferrara insieme allo sceneggiatore Maurizio Braucci (sua anche la sceneggiatura di Anime Nere) per ricostruire il senso degli ultimi giorni di Pier Paolo Pasolini; un procedimento diametralmente opposto alla forma del biopic o del film inchiesta, molto più vicino a quella necessità stilistica, prima ancora che linguistica di “un monologo interiore privo dell’elemento concettuale e filosofico astratto esplicito“, ovvero realizzato attraverso quel cinema di poesia che Pasolini stesso identificava in parte con la soggettiva libera indiretta.
Un transfert del pensiero Pasoliniano nelle inquadrature, nella luce notturna del film, nelle continue sovrimpressioni, nei riferimenti animati da una doppia valenza, filologicamente rigorosa ma anche mentale e molto vicina al cinema di Abel Ferrara in quella riallocazione virale del montaggio che mette in crisi (anche) la propria soggettiva, costruendo il racconto come se fosse generato da un germe di possessione che libera i frammenti del discorso in uno spazio possibile, tanto che il Pasolini di Ferrara può stare accanto alle altre figure della sua filmografia che scendono “all’inferno” e quando tornano, se tornano “hanno visto altre cose, più cose“, esattamente come il Tony Childress di Mary, che perde legittimità rispetto alla libertà del suo universo immaginale, ormai libero di esistere al di là del suo controllo.
Il materiale di cui Abel Ferrara si serve oltre alle interviste, ai ricordi famigliari, all’ultima visita di Laura Betti (Maria de Medeiros) in casa dello scrittore, sono alcuni estratti da Petrolio e la messa in scena di “Porno-teo-kolossal” il progetto cinematografico di Pasolini rimasto incompiuto, destinato ad Edoardo de Filippo e in parte realizzato in seguito a partire dall’idea di partenza con “I magi randagi” di Sergio Citti.
Nella versione immaginata da Ferrara, Ninetto Davoli è Edoardo e Riccardo Scamarcio è Ninetto Davoli, in viaggio verso una resurrezione non riconciliata e priva di una conclusione. Un gioco di rispecchiamenti e sconnessioni che il regista americano applica su vari livelli, a partire dalla lingua parlata del film, tra inglese e italiano, con Willem Dafoe che passa dall’una all’altra, restituendo uno strano effetto di straniamento e allo stesso tempo di vicinanza ai suoi attori.
Scelta difficile, radicale e poco seducente, perchè come accadeva per “Napoli Napoli”, anti-documentario assolutamente pasoliniano, Abel Ferrara in “Pasolini” non confonde verità con verosimiglianza.