martedì, Novembre 5, 2024

Passeri di Rúnar Rúnarsson: la recensione in anteprima

‘Passeri’, il film del giovane regista islandese Rúnar Rúnarsson, realizzato nel 2015, ma in uscita nelle nostre sale questo giovedì 2 marzo, è un Bildungsroman, la storia di un’estate islandese determinante nella vita di Ari, adolescente dinoccolato e smunto dalla voce d’angelo e un limpido sguardo nocciola, che, in una manciata di notti bianche, sperimenta la brutalità della strappo che separa la dolcezza dell’infanzia dall’amara aridità dell’esistenza adulta.

Ragazzo dotato e sensibile, Ari viene costretto dalla partenza della madre per una missione umanitaria a lasciare Reykjavík e a tornare nel villaggio di campagna dove vive ancora suo padre, mai del tutto ripresosi dal divorzio, insieme alla nonna, una donna saggia che, pur accudente, non cede affatto alla tentazione di deresponsabilizzare il figlio, un uomo apparentemente adulto, ma più profondamente immaturo e inadeguato, al quale l’età anagrafica non ha corrisposto alcuna lezione di temperanza.

Il tema del coming of age è classicamente letterario e cinematografico, eppure sorprende come, nonostante le sue infinite rivisitazioni, non abbia ancora esaurito la sua urgenza: non a caso, due dei film più celebrati e premiati di quest’ultima stagione cinematografica, ‘Moonlight’ e ‘Manchester by the Sea’, sono incardinati su un processo di formazione e su una sofferta costruzione identitaria, con al centro due giovani protagonisti all’incirca della stessa età di Ari.

Quest’ultimo, infatti, proprio come Chiron di ‘Moonlight’, si dibatte in una dimensione sociale che asseconda codici e rituali stantii di una virilità esibita, ma posticcia e, come Patrick di ‘Manchester by the Sea’, nel rapporto con una figura maschile che, benché imperfetta e ferita, è a suo modo presente, trova una risposta a un bisogno di prossimità affettiva.

‘Passeri’ è, dunque, un film che sa ben intercettare le potenzialità emozionali di un motivo che potrebbe essere ripetuto all’infinito senza concedere nulla allo spauracchio del già visto, ma non è altrettanto in grado di capitalizzare lo spunto narrativo e di tradurlo di una rappresentazione incisiva.

La fotografia polverosa e rarefatta avvolge come una pellicola una vicenda trascinata senza ritmo, con il rischio di spegnere un paesaggio anti-retorico per eccellenza, quello spigoloso, bruno e cromaticamente insaturo dell’Islanda, nella trita retorica di un cinema del rigore, dimesso per manifesto e non per un’autentica tensione verso lo scabro poetico.

Benché appannata, resta, tuttavia, un’esperienza visivamente e concettualmente interessante quella che persegue il film di Rúnarsson nel consegnarci un’Islanda non da spot, molto lontana dal paradigma ideologico di perfezione civile, spesso fabbricato, per velleità, dalle nostre zoppicanti civiltà mediterranee avvelenate dal disfattismo e dall’appiattimento manicheo.

L’Islanda non è solo un Eden del welfare o delle politiche ambientali, ma anche un microcosmo spoglio in cui il confine tra indipendenza e solitudine si allarga in una macchia indistinta di stordimenti compulsivi e squallore relazionale: il regista ce lo mostra in filigrana, ma è questo taglio critico, che allaccia all’universalismo intimista il particolarismo sociale, l’aspetto più interessante di un film che esige dallo spettatore uno sguardo paziente, educato all’attesa.

Carolina Iacucci
Carolina Iacucci
Classe 1988, è dottoranda in letterature comparate e, occasionalmente, insegnante di lettere antiche e moderne. Nei suoi studi accademici, si è occupata di Euripide e Bergman, poeti greci classici e contemporanei, Shakespeare e Karen Blixen. Appassionata di filosofia, cinema e giornalismo.

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