Paterson è un film in cui non succede nulla; è, anzi, un film su ciò che, nella vita, non succede.
Il protagonista omonimo è un gigante buono che ha il nasone e le orecchie ingombranti di Adam Driver, di professione autista, con lo stesso nome della grigia città di provincia in cui vive da sempre e in cui non ha mai sperimentato un brivido in più rispetto al quieto refrain di giorni tutti uguali.
La moglie Laura (come una musa), incarnata da Golshifteh Farahani, un’attrice finalmente libera dall’etichetta esotica dell’esule iraniana a Parigi, è vulcanica e prodigiosa nello scovare quotidianamente una compensazione creativa al vuoto, che sia decorazione di interni, cucina sperimentale, musica folk.
È questo uno dei personaggi femminili più belli (e superbamente interpretati) del cinema recente, perché misurato nella bizzarria e affatto patetico nella sua luminosa ingenuità, privo di quell’auto-indulgenza di chi si ritiene sempre in credito con la vita.
A guardare Paterson, l’ultimo capolavoro del guru dell’indie americano Jim Jarmusch, ingiustamente snobbato dalla giuria dell’ultimo festival di Cannes, si capisce qualcosa in più su noi stessi, perché, se ci si ritrova insofferenti di fronte alla rappresentazione di un’umanità e di un’esistenza così disadorne, allora significa che ad animarci c’è uno spirito eroico, ansioso di riempire di cose il tempo, se al contrario ci ritroviamo rapiti nel flusso della nuda quotidianità, allora lo spirito è quello poetico, ansioso di riempire di sguardo il tempo.
Paterson è, in fondo, proprio questo, un film sullo sguardo, sulla capacità di vedere più che di sentire, di guardare più che di fare: è un’opera che non celebra la poesia minima del domestico e dell’ordinario, ma il dono di vivificare ciò che c’è in luogo di lamentare ciò che manca.
Le poesie che Paterson scrive nei momenti liberi dal lavoro e dall’angustia della routine sono modeste e sghembe, ripetitive e a loro modo buffe, non sono capolavori, ma non importa perché esprimono una gratitudine non richiesta, manifestano l’intima urgenza non di sublimare la carenza di vita, ma di cantare l’illuminazione improvvisa, l’oggetto casalingo, l’amore coniugale e calmo, il pieno della presenza minuscola.
Jarmusch non ci dice, con il suo genio sottile, che tutto questo sia meritevole e salvifico, ma ci dice che ciò di cui è capace il suo protagonista – intercettare il poetico nelle maglie del mediocre, orribile quotidiano – non è affatto una qualità comune di chi è semplice, ma il talento raro di chi è, piuttosto, infinitamente ispirato e nobile.
Il cameo degli ex ragazzini precoci di Moonrise Kingdom di Wes Anderson, nella parte di due baby neo-anarchici che sull’autobus discettano di Gaetano Bresci, è una gemma di intertestualità che impreziosisce ulteriormente quest’opera già colta ed oltremodo elegante che rende onore alla lezione più alta del cinema autoriale americano.