Edson Arantes do Nascimento, meglio conosiuto come Pelè, è la figura fondante di una precisa e florida mitologia sportiva, quella del talento predestinato passato in poco tempo dalla palla di stracci tra le baracche al trascinare da solo una nazione intera sul tetto dell’olimpo calcistico. Antonomasia assoluta del calcio per almeno due decenni, o Rey è diventato leggenda in un’epoca di relativa carestia scopica, in cui le gesta del campo venivano tramandate a voce dai testimoni sugli spalti o nei riti collettivi in cui interi condomini si radunavano attorno ad una radio o ad un televisore in bianco e nero. Forse è proprio a causa di questo svantaggio concorrenziale nei confronti degli iperesposti idoli da youtube e playstation che la Legends 10, titolare in esclusiva dell’immagine del campione brasiliano, ha pensato che fosse il momento di lucidare lo smalto del mito, proponendo alla Imagine di Ron Howard un lungometraggio sulla storia del proprio assistito.
La regia e la scrittura vengono affidate ai fratelli Zimbalist, autori di Favela Rising, sul movimento culturale brasiliano dietro alla musica Afro-reggae, e del documentario per ESPN The Two Escobars, sulle collusioni tra Narcos e calcio colombiano tra anni 80 e 90. Stupisce ancora di più quindi che, con due documentaristi in regia, si sia deciso di assecondare sfrenatamente i tratti favolistici dell’ascesa della Perla Nera, a discapito dei già piuttosto incredibili fatti noti, scolpiti nelle tavole della storia sportiva e nella mente di ogni autentico appassionato di calcio che abbia superato l’adolescenza. D’altra parte la stessa scelta di far parlare in inglese tutti i personaggi del film fornisce un tara delle pretese di verosimiglianza del progetto.
Nel 1950 la cittadina di Bauru assiste via radio al tragedia nazionale del Maracanaço, che vede i verdeoro perdere in rimonta dall’Uruguay il mondiale casalingo del 1950 . Ad appena 10 anni, Edson allora detto Dico, promette solennemente di rimediare all’onta di fronte al padre e calciatore fallito Dondinho (il cantautore Seu Jorge, già marinaio soprannominato Pelè in Life Aquatic). La prima parte del film è quindi dedicata ad un resoconto enfatico e posticcio dell’infanzia di Dico e della sua compagnia di piccole canaglie, completa di spalla comica obesa e di fragile amico quattrocchi. Complice la colonna sonora di A. R. Rahman, risulta impossibile ignorare quanto l’estetica e il trattamento dei personaggi sia pesantemente debitore di Slumdog Millionaire: marachelle in favela, videoclippate e coreografate a ritimi sostenuti e condite da qualche dose di melodramma sociale al ralenti. Sbalorditiva la scelta di individuare il meschino antagonista in Josè Altafini, nato in una famiglia povera e cresciuto a duecento chilometri da Bauru, qui presentato come un indisponente figlio di papà che maltratta il futuro Pelè in quanto figlio della governante e lo sbeffeggia sul campo perché non può permettersi le scarpe da calcio, come il più stereotipico bullo biondo da Karate Kid.
Nel momento di passaggio di Dico dai campetti di fango al calcio professionistico, sempre nell’ottica di conferire ai fatti un presunto appeal cinematografico, viene introdotto l’elemento pseudo-magico della ginga, termine agè per definire lo stile bailado e creativo del calcio brasiliano, elevato qui a vera e propria Forza di starwarsiana memoria (con tanto di battuta “scorre potente in te” pronunciata dallo Yoda di turno) che ti permette di dribblare gli avversari come birilli a patto di evocare mentalmente lo spirito dei tuoi antenati schiavi. Giunto in nazionale a 18 anni, Pelè si farà profeta della ginga, contro il volere del coach verdeoro Feola (uno svogliato Vincent D’onofrio) messo in scena come disperatamente impegnato ad inseguire i tatticismi europei, specie in vista della nella finale contro i padroni di casa della Svezia, dipinti invece come strafavoriti e arroganti fino al paradosso. Nella scena che lo convince a cambiare idea vediamo scorrere sullo schermo un palese calco del celebre spot Nike Airport ’98, con tanto di tema musicale imitativo, semplicemente traslato dai locali di un aeroporto alla hall di un albergo anni ’50.
In questo svogliato riutilizzo di immaginari già esausti, le scene che risultano tutto sommato più credibili sono quelle sportive, nonostante il pregiudizio che descrive il calcio come lo sport anticinematografico per eccellenza. Merito di un montaggio ben calibrato, slow motion spettacolare e in questo caso ben dosata e di un protagonista non professionista (Kevin De Paula) atleticamente e tecnicamente all’altezza. Peccato però che anche in questo frangente faccia capolino la smania venire incontro al supposto gusto delle nuove generazioni: da qui un uso smodato della panoramica circolare alla Michael Bay, come anche le azioni,rimesse in scene dalle partite originali, che vengono adulterate da ampie dosi di doppi passi, elastici, ruletas e una altri trucchetti da freestyle soccer (o da videogioco), molto rare nelle immagini dell’epoca. Pelè: birth of a legend si rivela così un progetto deragliato fin dalle intenzioni iniziali, segnato da una grave pigrizia narrativa, pensato come un collage di spunti già visti, terrorizzato dal pubblico a cui si rivolge. Un fenomeno 18enne ha effettivamente portato la propria nazione sulla cima del mondo nel 1958, il racconto che ne viene fatto al cinema, per il suo eccesso di sofisticazione, riesce a banalizzare la portata e l’eccezionalità dell’impresa.