La forza del secondo film di Bonifacio Angius abita nella coraggiosa capacità di individuare un’immagine precaria; al contrario di una tendenza tutta Italiana che si sarebbe senza dubbio assestata su temi, frasi ad effetto, soggetti dell’enunciazione o peggio ancora questioni generazionali utilizzate come bandiere, Perfidia è un autentico miracolo nel nostro cinema, indipendente e non.
Non è allora semplicemente la precarietà di Angelo, trentacinquenne senza un lavoro e chiuso nel proprio silenzio, nè la presenza costante del padre, ossessivamente preoccupato per il suo futuro e per questa assenza di vita nello sguardo del figlio, ma il loro passaggio impossibile in un paesaggio come quello sardo che per Angius diventa un non-luogo assolutamente distante da certe asperità affascinanti o dalla seduzione naturalistica dell’orizzonte. La provincia che il regista di Sassari filma è plumbea, opaca, deprivata da qualsiasi scorciatoia simbolica; un’estensione dei personaggi che restituisce i segni di un paese, tutto, annichilito e inerte, occupato dalla morte, non a caso epifania che sembra chiudere il film in una circolarità dove gli stessi movimenti del ragazzo sono confinati in un circuito destinato ad interrompersi ogni volta.
Se la morte della madre sembra far da sfondo ad una possibilità di contatto tra due uomini che non si sono mai parlati, questa fa parte di quell’inevitabilità che scardina ogni riappropriazione del senso, per una perdita costante di controllo sulla realtà che circonda i personaggi del film. Se allora gli oggetti che Angius filma sono quelli di una contemporaneità che ha perso qualsiasi funzione, osservata attraverso i dispositivi di consumo, il tempo che si ferma nello spazio urbano sempre identico, oppure che scompare nei luoghi squallidi che Angelo attraversa, emana la stessa luce fioca degli individui, documentando una realtà che non ha più alcuna connessione con la vita.
In un paese popolato da morti, anche il sogno famigliare di Angelo, il cui desiderio inespresso sicuramente è proiettato a costruirsi un nido, viene assorbito dall’inadeguatezza, da un pedinamento che si ferma un attimo prima, un desiderio d’amore che non riesce a farsi gesto, respiro, esperienza. Attraversato da continue interruzioni, movimenti potenziali che non si concludono mai, “Perfidia” è forse uno dei ritratti più spietati del nostro paese, senza la supponenza di farsi ritratto, ovvero senza quello scacco matto dello sguardo che diventa invettiva, nota a margine, testo da anteporre all’immagine.
Un film molto libero quello di Angius, anche se racconta la fine di ogni libertà. Risucchiando i suoi personaggi in uno spazio di anti-materia, come la frequenza di Radiomaria, unico commento alle condizioni post-ictus del padre, “Perfidia” sembra sfumare insieme ad una voce lontana, un’infinita e dolorosa immagine del non essere.