martedì, Novembre 19, 2024

Piccola Patria di Alessandro Rossetto: la recensione

Un fim sulla perdita, questa Piccola patria di Alessandro Rossetto, padovano al suo primo lungometraggio già presentato nella sezione  Orizzonti di Venezia 70.
Racconto che nasce su un humus di fertile produttività per simili storie, l’intento di mostrare la vera faccia di un Nord-Est clamorosamente balzato alla ribalta negli ultimi trent’anni con il suo miracolo economico è pienamente realizzato.
Quell’elicottero che sorvola la zona per riprese aeree della devastazione territoriale, il rombo delle eliche unito al frastuono di macchinari, traffico, voci umane incapaci di parlare se non urlando, musicaccia a tutto decibel per corpi di ballo sudaticci e inquadrati come soldatini sotto capannoni di sagre a base di polenta e osei e sarde in saòr , tutto è materia viva in presa diretta sul reale.

Del reale ha l’incongruenza e la frammentarietà, e speciale dote è quella di Rossetto nel rendere palpabile un disagio esistenziale vissuto ormai inconsapevolmente, diventato, di generazione in generazione, connotato antropologicamente individuato, una specie di mutazione genetica di un tessuto umano aggredito da agenti corruttori.

Ricchezza cresciuta in fretta su radici contadine e sottocultura dominante, perdita di identità, valori e tradizioni, alienazione e assenza di prospettive che non mirino al guadagno ad ogni costo, tutto questo esplode colpito oggi dallo tsunami della crisi finanziaria che, dopo aver sgonfiato la bolla economica degli ultimi decenni, mostra su quali esili basi fosse fondata.

Poco importa se si tratta di finzione o storia vera, quello che Rossetto racconta (le due ragazze con il vuoto pneumatico in testa, l’albanese che vive in roulotte e sembra migliore di tutti gli altri del posto, padri e madri vuoti simulacri di ruoli perduti per sempre, l’amico di famiglia porco che scopa la figlia dell’amico, il ricatto col filmino hard, e le botte, quelle sempre, basta uscire da una discoteca fumati e strafatti) è il ritratto di una piccola patria molto coerente in tutte le sue parti.

Funzione narrativa e indagine sociale sono inseparabili, il viaggio è in un universo asfittico e umiliante, dove l’ambiente plasma gli individui, e il singolo è indistinguibile dalla massa, ieri raccolta in chiesa a cantilenare devozioni, oggi festante a sventolare fazzoletti verdi sotto il palco del candidato leghista e poi via a ingozzarsi e ballare, ballare, ballare. Rossetto schiva stereotipi, si smarca da formulette e luoghi comuni, esteriorizza la realtà interiore dei suoi personaggi senza perdere di vista ambiente e fattori culturali.

L’arguzia sorridente unita alla vena satirica di Signore e signori, spietato film simbolo di un Nord-Est gaudente e bigotto, figlio del boom economico degli anni ’60, conformista e arrivista ma ancora capace di sana autoironia, assume qui il tono amaro di una cupa leggenda da hinterland indifferenziato, dove esistenze di basso profilo sono il prodotto di una realtà devastata, nel territorio e nella qualità di vita.

Ragazze insofferenti della banale routine di paese vivono una condizione di frontiera molto simile a quella degli States di Cassavetes, salvo essere a due passi dall’Adriatico e invece di sconfinate praterie vediamo occhieggiare le ciminiere di Marghera addossata a Venezia.Denaro facile, torbidi intrecci sentimentali, miti metropolitani e osservatori strapaesani, in Piccola patria la realtà deborda nello scenario squallido e televisivo di un reality.Il ricatto sessuale di Luisa ( Maria Roveran) ai danni di Menon (Diego Ribon ) con la complicità di Renata (Roberta Da Soller ) e l’uso strumentale di Bilal (Vladimir Doda) l’albanese ignaro di tutto, è cronaca annunciata. Alla fine quello che si perde è il rispetto di sé, il denaro, l’amore, e si rischia anche la vita.

Babele linguistica, dialetto veneto e albanese convivono senza integrarsi, la comunicazione negata è una delle perdite di questo universo, veneto ma anche extraterritoriale, di cui Mirko Artuso, uno degli interpreti, dice: “La regia di Rossetto è molto vicina alla scrittura di Dürrenmatt, che ha scoperchiato la visione romantica della Svizzera perfetta ed aulica. Lui ha fatto lo stesso. Basta con questa idea del Veneto solo vincente. Abbiamo girato nella parte più brutta, inguardabile, torbida. È stato come entrare nelle villette a schiera dalla parte del garage, dove si nascondono le cose da buttare”.

 

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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