Tornano le Barden Bellas con le loro esibizioni “a cappella” per il secondo capitolo di Pitch Perfect passato dalle mani di Jason Moore a quelle dell’attrice-produttrice Elizabeth Banks, qui al suo debutto nel lungometraggio. Grazie anche alla sceneggiatura dei soliti Key Cannon e Mickey Rapkin, autore del libro da cui sono ispirati i due film, la Banks si sbarazza definitivamente di tutti i riferimenti espliciti o meno al cinema di John Hughes per accentuare quei toni scorretti che erano comunque alla base del progetto originario. In un certo senso, l’attrice diventata nota al grande pubblico grazie a “40 anni vergine“, fa propri i meccanismi della commedia svitata di nuova generazione con al centro i personaggi femminili, guardando a titoli come Bridesmaids e quindi ad autori come Paul Feig e ovviamente Judd Apatow.
Il modello dello scontro a colpi di numeri musicali in stile Step up rimane più o meno lo stesso ma con gli ingranaggi del meccanismo per metà fuori uso. L’incidente occorso durante un’esibizione al Lincoln Center estenderà una macchia d’onta sulla reputazione delle Bellas; quando Fat Amy (Rebel Wilson) si calerà dall’alto con tutto il suo peso mentre il combo esegue una cover di Wrecking Ball, lo strappo dei pantaloni mostrerà le pudenda dell’eroina oversize a tutta l’America, incluso i principali inquilini della Casa Bianca, ospiti d’onore della serata.
L’episodio contribuisce a rompere l’equilibrio interno del gruppo, perdita dell’armonia sulla quale il film insiste per giocarsi le carte migliori nel rapporto tra funzionalità del numero sia musicale che comico, con relativo sabotaggio. Nelle competizioni che dovranno condurre per i mondiali del canto “a cappella”, le Bellas si confronteranno con una sarabanda freak di rivali tra cui i teutonici Das Sound Machine, formazione con il “motorik” nel sangue, forieri di un’estetica tra Bdsm e posture militari capitanati da Kommissar, mistress biondissima con il volto di Birgitte Hjort Sorensen. Alla geometria della macchina musicale tedesca si contrappone ovviamente la delirante a-sincronia delle Bellas, con Rebel Wilson a sparigliare le carte tra scorregge e dirompente trivialità. Ma la Banks sembra interessata a contaminare il dispositivo lavorando su più registri di natura emotiva, perché se il primo capitolo di Pitch Perfect spostava la reinvenzione della battle of the sexes di certa commedia americana coeva nello spazio agonistico dominato da gruppi canori a prevalenza maschile, questo aspetto viene disseminato nei numerosi siparietti relazionali. Non solo quelli tra le ragazze impegnate in una serie di schermaglie sentimentali, ma l’assegnazione di un ruolo determinante al personaggio di Beca (Anna Kendrick) la cui consapevolezza passa attraverso il lavoro come segretaria addetta ai caffè nello studio di un produttore, fino alla possibilità di emergere come solista rispetto al cameratismo del gruppo.
È una dimensione interessante e sicuramente legata al tentativo di lavorare con più intelligenza sui personaggi, ma che di fatto convince solamente quando è il ritmo a regolare i contrasti, basta pensare alla forza di alcune gag, tra cui quelle che coinvolgono le relazioni tra Rebel Wilson, la new entry Hailee Steinfeld e i rispettivi pretendenti e sopratutto lo scontro agonistico in stile fight club che viene allestito nel dungeon clandestino di un miliardario ossessionato dal canto a cappella, dove la Banks controlla perfettamente umori e sentimenti con la velocità e l’organizzazione coreografico-spaziale dei numeri musicali. È solo in questi casi e in pochi altri, come per esempio le session di registrazione che coinvolgono Snoop Dog nella realizzazione di un nuovo disco natalizio, che il film della Banks funziona veramente, perdendo in ritmo e mordente quando invece ci racconta tutta la retorica di gruppo attraverso i siparietti di intimità cameratesca, realizzati senza troppa convinzione e con una convenzionalità che non mostra alcuna zampata creativa.
Con tutte le intenzioni e gli agganci narrativi utili per avviare un nuovo episodio della saga, quello di Elizabeth Banks è a conti fatti un debutto con alcune intuizioni divertenti ma che non ottimizza al meglio l’esperienza acquisita in questi anni di frequentazione a vario titolo nell’ambito della commedia americana.