venerdì, Novembre 22, 2024

Pokèmon: Detective Pikachu di Rob Letterman – la recensione

Il grande risultato di Pokèmon: Detective Pikachu è quello di conferire credibilità a un racconto legato a un’operazione commerciale. L’ormai usuale incrocio tra espansione mediale e narrazione dedicata alla produzione gadgettistica in questo caso è infatti gestita sullo schermo scommettendo contro la mitologia di riferimento attraverso una riscrittura fedele ma originale. In un certo senso alla maniera degli ultimi film Marvel, disposti a modificare la genetica dei fumetti di riferimento per manipolare la narrazione (e la sua gittata globale) al fine di messaggi politici progressisti, in cui identificarsi, facendo dimenticare la direzione finanziaria del prodotto e avvicinandosi a un’idea di blockbuster consapevole delle proprie capacità comunicative.

Il film di Rob Letterman, sviluppato sul patrimonio visivo dei pokèmon, prende ispirazione da questa equazione creativa ma non modifica i propri codici per presentare un’ideologia politica connotata per dichiarazioni: lo fa invece (con molta cautela) per dare più attrattiva cinematografica e spessore caratteriale, personalità e storia a personaggi provenienti da circuiti narrativi chiusi e poco esprimibili sullo schermo.

Ci riesce bene e in modi diversi nella descrizione del contesto e nella caratterizzazione dei suoi personaggi. Grazie all’uso di diversi linguaggi di genere, incastonati l’uno dentro l’altro in una grande cornice eterogenea – composta da avventura, noir e fantascienza, equilibrata nei toni e depotenziata di qualsiasi escrescenza negativa – il film infatti trova in primis un mondo per i suoi personaggi: un ambiente immediatamente riconoscibile – perché ottenuto da un collage derivativo capace di stilizzare molteplici e amati design iconici (da Blade Runner all’animazione manga) – e allo stesso tempo differenziato con dettagli peculiari mai incontrati; tanto morbido da essere incapace di incutere timore, ma comunque credibile grazie all’accuratezza ingannevole del realismo digitale e alla natura solare e favolistica delle sue ambientazioni, pensate per la sensibilità innamorata e per l’occhio meravigliato dei più piccoli.

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f99b16″ class=”” size=””]L’ingenuità del film non è riconducibile a una incapacità narrativa o a una assenza di idee, anzi, è legata alla necessità (ed è questo un cinema legato per definizioni a certe necessità) di coccolare visivamente il pubblico.[/perfectpullquote]

Risulta anche molto riuscito il personaggio di Pikachu, che viene però gestito in maniera diversa rispetto alla corrente tonale del resto del film: la sua misteriosa capacità di parlare, a differenza dei suoi simili, lo rende un grillo coscienzioso (in originale doppiato da Ryan Reynolds) capace di intenerire e rispondere a tono, parodiare e ironizzare, scherzare con le aspettative e fare emozionare sulla spinta di una genuina creatività, qui libera rispetto alle regole, alle funzionalità demandate sopra accennate.

Il carisma del suo personaggio – dotato in questa versione di capacità investigative – non solo però è il centro dell’azione scenica e del mistero narrativo: quasi oscura l’arco di crescita emotiva del protagonista (Justice Smith), su cui il film è in gran parte incentrato, e guadagna l’investimento memoriale dello spettatore.

È il risultato di una risemantizzazione capace, anche sulla figura più adatta alla produzione di giocattoli in serie, di giocare con coraggio sui codici di riferimento senza snaturarli. La prova delle possibilità appassionanti del lavoro originale sui patrimoni creativi cristallizzati nel loro immaginario.

Leonardo Strano
Leonardo Strano
Primo Classificato al Premio "Alberto Farassino, scrivere di Cinema", secondo al premio "Adelio Ferrero Cinema e Critica" Leonardo Strano scrive per indie-eye approfondimenti di Cinema e semiotica. Ha collaborato anche con Ondacinema, Point Blank, Taxidrivers, Filmidee, Il Cittadino di Monza e Brianza

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