L’apprendistato di Gil Kenan si è svolto mediante l’acquisizione indiretta di una certa eredità Spielberghiana. Non solo per il soggetto dei suoi due primi film, in linea con alcune quest del cinema anni ottanta, ma per l’imprimatur di Robert Zemeckis in Monster House e per quello di Tom Hanks in City of Ember. Da quest’ultimo Kenan desume la fascinazione per i dispositivi elettrici affrontando il remake del primo Poltergeist con la produzione di Sam Raimi, cercando di uscire dal recinto del recupero vintage con l’intenzione di sottoporre le intuizioni di Hooper/Spielberg ad un aggiornamento di tipo tecnologico.
Il pattern caotico di carica statica della televisione analogica che è al centro del primo film viene sostituito dai glitch degli schermi digitali, dagli smartphone, dai tablet e da un drone con videocamera implementata che viene spedito in perlustrazione nell’altra dimensione.
Senza dover per forza recuperare tutta la disputa critica che più di trent’anni fa dibatteva sulla partenità di Poltergeist attribuendo alternativamente a Steven Spielberg e a Tobe Hooper scelte e decisioni, sembra che il connubio Kenan / Raimi oltre ad essere molto meno traumatico perda completamente di vista quel contrasto tra corpo, prostetica e virtualità dell’immagine televisiva che ne faceva un film centrale insieme ad altri usciti in quegli anni come Videodrome, il “minore” Halloween III: il signore della notte di Tommy Lee Wallace e il terminale Il signore del male di Carpenter realizzato quasi alla fine del decennio.
Il rumore bianco e la viscosità dei corpi puntavano nel primo Poltergeist a quello spazio di antimateria che Deleuze identificava nel massimo di rarefazione raggiunto dall’immagine, quando lo schermo “diventa tutto nero o tutto bianco”. Da una parte le cariche statiche che descrivevano la posizione liminale dell’immagine televisiva analogica, assente ma sempre presente attraverso il bombardamento elettromagnetico, dall’altra la liquefazione dei corpi che puntavano alla stessa cancellazione del senso instaurando una relazione più esplicita con l’abietto.
Kenan non si spinge oltre le possibilità dell’omaggio partendo proprio dalla suggestione più esplicita del film originale, quella del televisore sbattuto fuori dalla porta alla fine del primo Poltergeist e che aveva acceso una serie di interpretazioni sociologiche a catena. E infatti insiste sulla portabilità dei dispositivi, sul modo in cui la percezione dello spazio fisico sia ormai costantemente modificata da quella aumentata dei tablet e degli smartphone, dilungandosi sulla sostituzione delle necessità primarie con il superfluo tecnologico per una famiglia nel pieno di una crisi economica.
Non è interessato a coglierne tutte le implicazioni teoriche e il modo in cui l’immagine digitale entra in collisione con il dispositivo cinema e con il nostro modo di percepire la realtà, basta pensare a come allontana qualsiasi tentazione analitica in questa direzione, simulando il rumore bianco dei vecchi catodi attraverso uno schermo LCD senza avventurarsi sulla degradazione dell’immagine se non ad un livello superficiale come accade in molte produzioni della Blumhouse, quasi a mantenere un residuo del passato, scosse elettriche incluse, che è un po’ il problema di tutto l’horror hollywoodiano degli ultimi anni, dove la tecnologia non assume più un ruolo di transito tra il corpo e lo sguardo, sostituendo al luogo della mutazione quello dell’embedding, l’incorporamento della memoria popolare collettiva come scheggia di un vastissimo archivio digitalizzato che utilizza le nuove tecnologie semplicemente come una cornice per accogliere i memorabilia di un cinema che non è più.
Persino la relazione passiva con lo schermo televisivo rispetto all’interattività di quelli connettivi (tablet, drone, smartphone) è relegata in una dimensione sin troppo didascalica, dalla deambulazione distratta di Rosemarie DeWitt con tanto di tablet in mano e pistolotto del figlio, fino alla furia di Saxon Sharbino che cerca di spaccare lo schermo LCD a calci.
In questo senso il vero Poltergeist si manifesta attraverso la relazione che al di qua dello schermo cerchiamo di instaurare con un aldilà storico talmente lontano da non farci più impressione come succedeva nel gioco tra infanzia e abiezione di Spielberg / Hooper, tanto che Kenan si ingegna a recuperare anche i clown dal ghigno malefico che Hooper aveva animato un anno prima di Poltergeist nel suo The Funhouse per poi rientrare a pieno titolo come marchio di fabbrica insieme alla casa costruita sul cimitero, durante la sua collaborazione con Spielberg.
In questa arena di rimandi innocui, Raimi ci mette i suoi senza preoccuparsi di trarre ispirazione da quel prodigioso lavoro sul colore e l’immagine digitale che aveva fatto con il suo “Il grande e potente Oz”, limitandosi a riprodurre alcuni elementi del suo cinema estremo “a passo uno” suggestionato da più storie della pittura, basta pensare a tutta la sequenza tra espressionismo e animazione che nel momento dell’attraversamento verso l’altra dimensione fa esplodere una scheggia di cinema a sé stante.