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Pride di Matthew Warchus: la recensione

Pride di Matthew Warchus è una storia vera, una commedia brillante che diverte e commuove, un’alleanza inedita fra omosessuali e minatori in lotta orgogliosa nell’Inghilterra del thatcherismo avanzato.

Il Festival di Cannes 2014, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, ha premiato Pride di Matthew Warchus con la Queer Palm.
Nelle sale dall’11 dicembre, Pride è il vero “film di Natale” , capace di esorcizzare l’orrida etichetta a tutti nota. Cosa meglio, infatti, di una storia vera di solidarietà, tolleranza, scoperta delle somiglianze che ci accomunano al “diverso”, potrebbe rubare la scena ai tradizionali cinepanettoni, pronti ad essere sfornati sulle tavole degli Italiani?
C’è garbo, humor da vendere, ci si commuove anche un po’ e, soprattutto, si ricorda.

Sono passati trent’anni, omosessuali e minatori ai tempi della Thatcher sembrano lontani anni luce, chi ricorda quegli anni, quelle lotte, quella fame? E, soprattutto, chi ricorda l’aiuto che il gruppo LGBT (Lesbian and Gays Support the Miners) diede alla causa dei minatori?

Nel 1984 l’indimenticabile iron lady, Margaret Thatcher, annunciò la chiusura di una miniera di carbone nello Yorkshire. Primo di una serie di smantellamenti in varie zone del Paese, in particolare nel Galles, che portarono alla perdita di 20.000 posti di lavoro, il provvedimento scatenò scioperi che durarono un anno, da marzo a marzo, per poi concludersi con la sconfitta piena dei lavoratori.
Attaccati dalla polizia, ridotti alla fame con il sequestro dei fondi sindacali, due morti e innumerevoli feriti in bilancio, 710 licenziamenti e 10.000 procedimenti giudiziari, dopo 52 settimane non restò che cedere, lasciando che il programma neoliberista del governo uscisse ulteriormente consolidato dallo scontro.

Che in vecchiaia l’Alzheimer abbia consumato la Thatcher è cosa che riempie ognuno di umana pietà, quella che a lei mancò quando inviò forze di polizia in assetto anti-sommossa a manganellare e gasare uomini e donne in jeans e scarpe da ginnastica, colpevoli di chiedere lavoro e rispetto dei diritti civili. “Thatcher pays police to starved kids”, scrivevano allora sugli striscioni, ma questa volta a fotografarli non c’era Joris Ivens.

Il suo Misère au Borinage (Ellende in de Borinage),il primo documentario militante girato nel 1933 nel bacino carbonifero del Borinage, sub-regione francofona del Belgio, mostrò minatori in sciopero che sfilavano nella marcia della fame.

Anche Van Gogh era vissuto lì, con quei minatori, qualche tempo prima. Ma la storia non è sempre progresso. E la didascalia che chiudeva lo splendido documentario di Ivens suona ancora come monito :
Le prolétariat sait que les contradictions et la misère dans le Borinage, come dans la Belgique entière , comme dans le monde, sont les fruits du capitalisme et que l’humanité ne sera sauvée du desordre et de l’exploitation de l’homme par l’homme que par la dictature du proletariat pour l’avènement du socialisme

Un brutto capitolo della storia inglese oggi torna alla memoria, merito di un film che colma un vuoto in più, quello che la ricerca documentaria registra quasi ovunque:la solidarietà degli omosessuali.
Sparita nel nulla, Arthur Scargill, il capo degli agitatori dell’epoca, nel 2009, dalle colonne del The Guardian, fa un cenno generico ai “gruppi di sostegno” concludendo: “Ho sempre detto che la più grande vittoria dello sciopero è stata la lotta stessa, una lotta che ha ispirato milioni di persone in tutto il mondo.”

Eppure, nel 1985 le unioni sindacali della categoria marciarono in prima fila al Gay Pride, Londra vide nelle sue strade un’alleanza inedita, eccezionale, in quanto stipulata con uno dei settori più irriducibili dell’universo maschile, i rudi minatori depositari del più nutrito vocabolario al mondo di appellativi per omosessuali.

Il piccolo gruppo di attivisti londinesi, guidati dal ventiduenne Mark Ashford e facenti capo alla libreria Gay’s The World, riuscì nell’impossibile e l’aiuto a quelle comunità di minatori diventò amicizia e conoscenza, spezzò le barriere del pregiudizio, insegnò a sentirsi vicini nell’orgoglio molto più che nel dolore. Pride è un film senza retorica là dove la retorica si prestava ad essere versata a piene mani, l’autoironia è sempre presente, qualche frettolosità verso il finale può essere perdonata, si glissa molto sul tema AIDS, era meglio ignorarlo del tutto piuttosto che accennarne appena, il film parlava d’altro.
Comunque, difetti minimi rispetto al merito, indubbio, di trattare il dolore, la rivolta, l’emarginazione, la pietà con una misura ed un rispetto che conferiscono alla pellicola una classe eccellente.

Il cast è di prim’ordine, da Dominic West che si scatena sui tavoli in uno spettacolo dance da brivido sulle note di Shame Shame Shame, a Paddy Considine, Imelda Staunton, Bill Nighy, stelle della commedia brillante. Mai così meglio assortiti anche i giovani del gruppo gay e lesbiche, ognuno con la sua identità umana scritta in faccia, i cosiddetti “vicolo cieco evolutivo” capaci di gesti che non chiedono nulla in cambio.

Matthew Warchus ha un dono, la sintesi. Con brevissime pennellate ci racconta lunghe storie, famigliari, sociali, storie di difficoltà ma anche di rivolta: “Se qualcuno ti insulta, prendi quell’insulto e fallo tuo”.
Da quel momento quel gruppo inedito di forze sociali fatto di omosessuali e minatori si chiamerà “ Pits – pozzi – e – perverts – pervertiti”.

E le donne e i loro diritti? Ci sono anche loro e cantano Vogliamo il pane e le rose, seguite in coro dagli uomini. La bella storia finisce qui, about finding hope. Quel che succede dopo è un’altra storia.

RASSEGNA PANORAMICA
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Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.
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