lunedì, Dicembre 23, 2024

Quei Bravi Ragazzi – The Goodfellas di Martin Scorsese: la recensione

Henry Hill è cresciuto a Brooklyn, ed è cresciuto col mito dei mafiosi che regnavano su quelle strade. È cresciuto fino a diventare un mafioso di medio livello, il braccio destro di James Conway (Robert De Niro). Ma il loro compare Tommy DeVito (Joe Pesci) una sera ammazza un intoccabile. E per il gruppo di bravi ragazzi la strada si fa dura..

The Goodfellas è un viaggio nel mistero profondo dello sguardo, imperscrutabile, penetrante come quello di Tommy De Vito, “angelo con la pistola” che appare come un fantasma in chiusura, quasi fosse ulteriore presagio di morte, o come quello di De Niro, eloquente senza il bisogno di dire alcuna parola.

L’occhio è capace di controllare tutto, superando lo spazio fisico e mentale che vi è tra la vita di Henry Hill (Ray Liotta) prima e dopo il suo coinvolgimento con la cosca dei Lucchese, aldilà del viale di casa del quartiere di Brownsville. Anche la mdp risente di questo “rapimento della vista” (non a caso Scorsese qui cita Raoul Walsh :”..con le riprese dall’alto e dal basso un’immagine buona diviene ottima, un primo piano vale più di mille parole..”) che coinvolgerà in toto il destino del ragazzino italo-irlandese dagli occhi chiari (Ray / Henry Hill), avvicinandosi spesso ai soggetti coinvolti nell’azione, come a voler incarnare l’occhio attento e pervasivo della mala, perché “non puoi sfuggire al sistema: una volta che sei nella mala non ne esci più”. Il tessuto criminale è uno stato nello stato: i valori americani della famiglia, libera impresa e patriottismo sono completamente capovolti e l’individualismo come valore base di una società è definitivamente morto. Distaccarsi dalle dinamiche mafiose, attraverso la scelta di Henry compiuta durante il processo conclusivo, si anche il punto di vista di Scorsese, prima costantemente addossato e amalgamato all’azione, ora libero di allontanarsi dalla messa in scena.

La famiglia per come è comunemente intesa, è un luogo di aggregazione dove si ricerca la sicurezza per poter affrontare ciò che vi è all’esterno del nucleo. Qui avviene invece un forte ridimensionamento del ruolo famigliare, cannibalizzato e ridotto a luogo asfittico e senza possibilità di uscita, non c’è differenza tra quella originaria e quella del gruppo guidato da Paul Cicero (Paul Sorvino), la “seconda famiglia” di Hill. Essa diviene un luogo di violenza primordiale, in cui entra in gioco una forte componente di irreversibilità nelle scelte e nelle azioni, le quali, se prese in contrasto a quelle del clan, conducono ad un bagno di sangue indifferenziato, come nell’amarissima sequenza costruita sulle note di “Layla” di Derek and the Dominoes, improvvisamente cancellata dal nichilismo punk di “My way” nella versione interpretata da Sid Vicious.

Ciò che rimane costante della filmografia di Scorsese, e che qui si ripresenta in maniera molto marcata, è l’omaggio al linguaggio del cinema delle origini, dai close-up ai vertigo-shot, fino alle carrellate in piano sequenza. È una cinefilia fortemente combinatoria quella di Scorsese, dove il recupero è anche re-invenzione e disorientamento ipertrofico, accumulazione percettiva ma anche forza di un cinema fortemente fisico dove il “colore” dei soldi così come quello del sangue ha una consistenza quasi tattile.

Nel documentario del 1995 “A Personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies” Scorsese si mette allo specchio e parla di tutto il cinema americano, anche e soprattutto quello di serie b, visto, vissuto e che lo ha ispirato di più. Se si va poi a scavare nella complessa stratificazione stilistica di “The Goodfellas”, si ritrovano Wellman (Public Enemy), Hawks (Scarface), Polonski (Force of Evil) e molto altro ancora, dal gangster movie, genere e allo stesso tempo anti-genere ibridato sin dalle origini con il cinema delle avanguardie storiche, al western di “Duello al sole” (Vidor) “in cui due amanti riescono a consumare la loro passione soltanto uccidendosi l’un l’altro”, proprio come avviene tra Henry e Karen Hill.

In “Scarface”, ad esempio, Hawks riesce a dimostrare come la fusione tra visione e suono dia come risultato una “metafora mortale”; come d’altronde anche Wellman, che Scorsese definisce “un poeta dalle immagini crude e dagli eufemismi brutali, che amava scioccare, ingannare e anche frustrare il pubblico privandolo della scena clou”. Ed è proprio in Goodfellas che si scopre ciò che prima veniva nascosto in favore della suspense, spostando l’attenzione dall’azione cruenta in sé al feticismo che si nasconde dietro, posto al confine molto labile tra la freddezza del gesto omicida e il piacere che si prova nel farlo.

Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini è curatrice della sezione corti per il Lucca Film Festival. Scrive di Cinema e Musica

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