mercoledì, Dicembre 18, 2024

Race – Il colore della vittoria: fulmine d’ebano

Da un biopic sull’atleta afroamericano Jesse Owens, epiteto formulare “ fulmine d’ebano ”, che vinse quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi del 1936 a Berlino, non ci si aspetta un capolavoro né val la pena di pignoleggiare su grammatica e sintassi cinematografica, tratteggio un tantino piatto dei personaggi e quant’altro. C’è molto di più per cui merita di esser visto.
Di ragguardevole lunghezza, 134 minuti, il film sa come scorrere senza tempi morti, stabilisce subito empatia col pubblico e alimenta nello spettatore il giusto livello di entusiasmo per la vittoria.

Sugli spalti dell’Olympiastadion di Berlino per la più clamorosa delle Olimpiadi dell’era moderna e dietro le 45 cineprese di Leni Riefensthal, poste ovunque, anche dentro buche nel terreno da cui riprendere dal basso il volo di Owens come aquila librata nel cielo, c’è un pubblico ideale che il tempo non ha sconfitto.
Le sue Olimpiadi saranno dimenticate ” – risponde fiera la regista al freddo Goebbels – “ solo il mio cinema le renderà immortali ”.
E se le ciclopiche opere murarie di Werner March, spenti gli Heil Hitler delle masse osannanti, oggi risuonano solo di tifo sportivo, forse val la pena di credere che anche allora una vittoria sportiva infiammasse gli animi più della presenza del Führer e della sua corte in tribuna d’onore.
Quella che il film fa crescere è anche una giusta indignazione per il trattamento a dir poco ipocrita, e forse ignorato dai più, che il magnifico atleta subì in patria, dove Roosevelt non lo ricevette mai e, stando alle didascalie finali, il recupero della Casa Bianca su questo argomento fu molto tardivo.
C’è però qualcosa che lo spettatore attento non è disposto a perdonare, ed è il falso storico a cui Stephen Hopkins, il regista, ha ceduto, quasi non fosse abbastanza fiducioso di sè e del suo film. Perchè altrimenti strizzare l’occhio alla platea, condividendo quella falsa mitografia su Hitler come mostro isterico e selvatico, che una corretta critica storica ha giustamente provveduto a sanare negli ultimi anni? Parliamo del mancato saluto di Hitler ad Owens.
Fonti che affermano il contrario non mancano, addirittura a partire dalle memorie dello stesso Owens e dalla testimonianza visiva diretta di Arturo Maffei, all’epoca campione italiano di salto in lungo. Se Hitler e Goebbels fossero stati così sprovveduti e predisposti ad infantili isterismi, tipo “non voglio vederlo quello sporco negro, me ne vado!”, non avrebbero tenuto in pugno il mondo intero per anni e seminato milioni di morti in terra, cielo e mare.
Hitler scese in campo e tese il braccio nel saluto che ben conosciamo. Owens, comprensibilmente frastornato dopo vittorie così esaltanti, rispose con il saluto militare che, del resto, era nel suo stile in quanto membro dell’esercito U.S.A.
Le mani non si toccarono per una di quelle casualità che spesso alimentano false interpretazioni e l’umiliazione fu accolta con eleganza e fair play dai signori del Terzo Reich. Non sarebbero mancate occasioni per rifarsi, in seguito!
E certo l’errore più grande di Goebbels, la più nefasta anima nera del regime, intelligenza luciferina spesso ottenebrata da un fanatismo senza confini, fu di pensare allo sport come un ambito su cui estendere la sua propaganda.
I fatti dimostrarono il contrario, e non solo a lui.
Ai gruppi di pressione afroamericani che avrebbero voluto usare Owens come bandiera delle loro rivendicazioni se avesse rinunciato a partecipare a quelle Olimpiadi, l’atleta rispose no in nome di quell’unica, vera libertà che sentiva di avere quando correva.

Certo il percorso reale di Jesse sarà stato ben più duro e in salita di quanto appaia dal film, ma senza voler fare paragoni impropri, anche Pindaro, ai suoi tempi, non era al massimo del realismo narrativo quando intonava i suoi epinici per il corridore Senofonte di Corinto!
Attore esordiente, Stephan James nella parte di Jesse ha la giusta dose di caparbietà e innocenza che immaginiamo avesse il campione dei 100 e 200 metri piani, salto in lungo e staffetta 4x 100.
Il milieu alle sue spalle è quello tristemente noto dei neri d’America discriminati, nella parola race, “razza” ma anche “corsa”, c’è per lui una sorta di destino.
L’incontro con quello che sarà il suo coach Larry Snyder (Jason Sudeikis, un ottimo concentrato del miglior cinema americano su personaggi del genere) sarà la carta vincente. Intorno alla coppia ruotano figure volta per volta ben messe a fuoco, come quella di Avery Brundage, futuro presidente CIO, che Jeremy Irons sa rendere con quel tanto di idealismo cinico (ossimoro che ben gli si addice) che lo porta di fronte a Goebbels con la giusta espressione di disprezzo dipinta in volto, ma anche con la cedevolezza tipica degli uomini di potere.
Un cameo di William Hurt e l’intensa accoppiata Goebbels (Barnaby Metschurat) e Leni Riefenstahl (Carice Van Houten) insieme a Luz Long (David Kross), fuoriclasse tedesco di salto in lungo e convinto sostenitore del nazionalsocialismo che, battuto da Jesse, gli divenne amico fino alla morte avvenuta nel ’43 durante lo sbarco in Sicilia, completano un buon cast che distribuisce ben dosate emozioni per una storia di piccoli e grandi uomini (e donne, naturalmente).
Quali siano i piccoli e quali i grandi l’ha scritto la Storia negli anni successivi a quelle Olimpiadi.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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