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Rachel Portman – Never let me go ost

 Indie-eye Straneillusioni dedica uno speciale al nuovo film di Mark Romanek in uscita il 25 marzo anche nelle sale Italiane; da questa parte è possibile leggere la recensione del film scritta da Sofia Bonicalzi, mentre da questa parte c’è un secondo approfondimento curato da Michele Faggi

Rachel Portman, che lo si voglia o no, è uno dei maggiori compositori di musica per il cinema degli ultimi venti anni, sin dai primi ’90 si è ritagliata uno spazio personalissimo e solitario, perfezionando uno stile legato prevalentemente ad un post-romanticismo di impostazione classica che, non a caso, ha progressivamente posto al centro del suo comporre il Pianoforte, strumento intimo ed elettivo di un dialogo onestamente minimale con il range dell’orchestra, utilizzata come sistema leggerissimo per delineare le sfumature impercettibili dei sentimenti; alcuni dei titoli per i quali ha lavorato raccontano anche il suo mondo sonoro, Ethan Frome di John Madden, Only You di Norman JewisonAddicted to love di Griffin Dunne, The Cider House Rules di Lasse Hallström; commedie dove l’ambientazione sonora rimanda ad una tradizione che passando per il cromatismo di Erich Wolfgang Korngold, arriva probabilmente sino alla rilettura dello stesso da parte di compositori come Georges Delereu. La Portman, rispetto ai modelli, isola i suoi strumenti (arpa in prevalenza, corni e archi) in un contesto in cui possano risuonare con l’essenza impalpabile del Piano, timbro a cui tende sempre di più nelle colonne sonore a partire dal 2000 in poi. Never Let me Go non fa eccezione ed è sembrata a molti critici infatuati della raffinatezza educata dei suoi arrangiamenti più creativi, un ripiegamento poco originale sui suoi principali luoghi affettivo-sonori, afflitto com’è da una patina depressiva che neutralizza l’impeto drammatico delle prove migliori. Eppure, nel contesto di un repertorio che per esempio, recupera alcune modalità tipiche Portmaniane (tracce come la spiraliforme Madame is coming, o la tensiva To the cottages, esempio di come la compositrice inglese lavora in modo atmosferico con i crescendo) questo episodio defilato e timidamente “minore” della sua carriera si fa, ad un secondo ascolto,  inquietante e liquido come la forza perversa del film di Mark Romanek, capace di lavorare sottopelle sulle convenzioni di una scrittura vicina al mondo delle produzioni Merchant-Ivory, per coglierne il riflesso più minaccioso; se lo stile è opposto alla tensione inquietante costruita con modalità inevitabilmente Herrmaniane  nella bellissima colonna sonora composta per The Manchurian Candidate di Jonathan Demme, questo è perchè in entrambi i casi la Portman si è trovata probabilmente a lavorare sulla costruzione di immagini desunte dai processi cognitivi della memoria, in modo speculare; nel film di Romanek la forza tematica della sua musica viene letteralmente essiccata, spogliata di soluzioni seduttive e regolata sul tono più crudele di un simulacro sentimentale, basta ascoltare il drone funereo di Souls at All, sviluppato inesorabilmente senza i facili riferimenti ad un elettronica per le masse, a cui la Portman si è sempre orgogliosamente disinteressata preferendo i luoghi fumosi della memoria. A conferma di questo dialogo doloroso con il perturbante, la traccia che da il titolo al film e che chiude la tracklist viene attribuita nella diegesi a Judy Bridgewater, interprete dei primi ’60 di cui Carey Mulligan conserva gelosamente un’audiocassetta; Romanek ne ha diffuso alcune copie accuratamente invecchiate tra la stampa anglofona, come oggetto promozionale di Never Let me Go, includendo quattro brani e alimentand così il mistero intorno ad un interprete mai esistita; Never let me go è in realtà un brano composto intorno ai primi anni ’60 da Luther Dixon, abile autore di torch songs che hanno fatto la fortuna di interpreti come Dusty Springfield e le Shirelles, la versione inclusa nella colonna sonora della Portman è interpretata da Jane Monheit, ma al di là di questa caccia forsennata al tassello filologico, rimane il senso Barthesiano di un predicato capovolto dell’essere, come quello dell’aura fotografica, di cui parlavamo da questa parte.

Never let me go su Varese Sarabande

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