Rams – Storia di due fratelli e otto pecore di Grímur Hákonarson è uno dei rari arrivi nelle sale cinematografiche da quella terra lontana che è l’Islanda, l’ultimo posto al mondo ancora avvolto da un alone quasi mitico, quello evocato un tempo dal paese degli Iperborei ai confini del pianeta.
Cinema che distilla con molta parsimonia i suoi prodotti senza mai finire di affascinare (pensiamo a Dagur Kári, ad esempio, che dal 2003 con Nói Albinói al 2009 con The good heart, ha dato ottima prova di quel che si riesce a fare nei pressi del circolo polare artico), oggi finalmente, e forse inaspettatamente a detta di qualcuno, vince nella sezione Un Certain Régard all’ultimo festival di Cannes. L’idea era che Rams fosse un film di nicchia, un prodotto per palati cinefili e festivalieri che le platee avrebbero trascurato, e invece la sorpresa è stata grande nel vederlo amato anche dallo spettatore cosiddetto medio.
Il film è quello che si definisce un prodotto dolce/amaro, in grado da un lato di spiazzare per l’imprevedibilità della storia, dall’altro di coinvolgere per via di quel rispecchiamento di dinamiche comportamentali che, dall’equatore ai poli, ci tengono tutti uniti in nome della comune origine.
Un valore aggiunto lo danno le pecore, simpatiche creature dal vello ricciuto e gonfio, che trotterellano allegre su esili zampette nere come educande in divisa del college.
Rams è il plurale della parola ariete, e l’ariete è quel che si può definire l’eroe eponimo di questa storia a cui dà titolo e sviluppo.
Possente riproduttore in serie della sua specie, è il maschio esposto al concorso di bellezza del paesotto di poche case e un dopolavoro, dove convergono tutti i non numerosi allevatori del circondario con i loro campioni.
Terra aspra e inospitale in cui si alleva una razza ovina di eccezionale purezza, la vita di tutti ruota intorno al proprio gregge, e spazi sconfinati di muschio e tundra fanno da cornice al piccolo centro abitato e a qualche rara fattoria immersa in un silenzio quasi astrale.
Si staccano dal fondo due fratelli ormai di ”antico pelo”, Gummi (Sigurður Sigurjónsson) e Kindi (Theodór Júlíusson), esperti pastori e allevatori di montoni, burberi e barbuti vichinghi solitari. L’ariete di Gummi batte quello di Kindi al concorso per mezzo punto.
Poiché i due fratelli non si parlano da quaranta anni, pur vivendo in fattorie confinanti (qualche raro messaggio è affidato ad un cane pastore che corre col plico in bocca fra le due case) normale che la vittoria dell’uno sia un colpo al cuore per l’altro.
Sulla storia familiare pregressa sapremo ben poco, solo indizi minimi, quelli dietro i quali spesso si nascondono drammi ormai lontani di cui nessuno parla più. Del resto, la solitudine a quelle latitudini sembra essere la condizione più diffusa, e uno stile ruvidamente primordiale nella gestione delle relazioni umane è coerente con la natura non addomesticata che fa da sfondo.
In un mondo in cui il tempo sembra ripetere all’infinito il suo ciclo immutabile fra terra e cielo può però arrivare il punto di svolta, il momento critico senza più ritorno.
E’ un’epidemia di scrapie (la “mucca pazza” degli ovini) che si abbatte sulle greggi e distrugge l’economia dell’intera comunità.
Infatti bisognerà eliminare tutte le bestie e bonificare il territorio per due anni, cosa che equivale alla fine di tutte le attività della zona, messe in ginocchio da contributi statali decisamente inadeguati.
E’ a questo punto che la regia di Hákonarson fa le sue scelte migliori, raffreddando l’emotività e dribblando abilmente sociologismi, facili psicologismi e cadute di stile.
Diventa chiaro, ora, quanto l’ambiente modelli e condizioni le storie degli individui. I due fratelli, che qualcosa di oscuro e profondo ha così caparbiamente diviso, ritrovano nella lotta contro la “natura matrigna” (come non ricordare, a questo punto, il sulfureo Dialogo fra la Natura e un Islandese di Leopardi?) la stessa solidarietà che univa gli uomini delle caverne quando finivano preda disarmata di forze sovrastanti.
Il tentativo patetico e molto pasticcione di salvare quel mondo ovino che è tutto ciò che dà senso alla loro vita sarà anche il recupero di un’ umanità fatta sopravvivere, nonostante tutto, anche ai ghiacci perenni.
Film di umori terragni, affidato ad uno script essenziale che lascia quasi per intero il campo alla seduzione dei suoni e dei colori, al silenzio degli spazi sconfinati e al duro succedersi di opere e giorni, tra l’umorismo straniante che sgorga dallo stralunato ménage dei due fratelli e il tragico finale dove tutto finisce inevitabilmente per precipitare, Hákonarson colloca con cura la tenerezza del ritorno ad affetti e legami che si scoprono intatti, immuni dalla corrosione del tempo e ancora capaci di sacrificio.
Entra in scena, cioè, l’eroe etico, l’uomo che si sveste, e non solo metaforicamente, di tutte le sue sovrastrutture e torna a proclamare la verità del suo essere al mondo.
Nella buca di ghiaccio dove il fratello cercherà di dare al fratello il calore del suo corpo per mantenerlo in vita si scrive ancora qualcosa di buono sulla storia dell’uomo.