Tra i grandi videoclippari degli anni ’90 approdati al cinema – Spike Jonze, Jonathan Glazer, il vecchio Anton Corbijn – Michel Gondry è quello che finora ha giocato meglio col cubo di Rubik del cinema. Eternal sunshine of the spotless mind (2004) è un film sorprendente. Seminale, se mi si passa il termine. Questo Science of sleep, ingiustamente fuori concorso alla Berlinale, ne segue il solco e offre nuovi sviluppi audiovisivi, sebbene non ne possieda la carica umana e il potenziale drammatico. Piccola storia parigina parlottata in inglese e francese e a tratti scimmiottata in spagnolo – con accento messicano – The science of sleep è un teatrino delle meraviglie che lascia a bocca aperta, rilassa i nervi e acuisce lo sguardo. Terzo occhio incluso. Film di rara complessità che fa di tutto per sembrare fatto in casa, Sleep si distingue da Sunshine per difetto: uno sceneggiatore in meno – qua niente Charlie Kaufman: fa tutto Gondry – una produzione più defilata, cast meno strombazzabile ad eccezione del protagonista. Una cosa resta tale e quale: il nostro grido al miracolo.
Stéphan è un disegnatore con la fissa delle invenzioni, di passaggio nella capitale francese. Il padre è morto da tempo; la madre vive a Parigi insieme a un illusionista. Grazie a lei trova lavoro in una sgarrupatissima azienda in cui personalizzano calendari e passa le giornate al fotolito. Nel frattempo conosce le due dirimpettaie, Zoe e Stéphanie. Per via di un equivoco deve fingere di non essere il loro dirimpettaio. Stéphan s’innamora di Zoe, ma è con Stéphanie che si trova davvero in sintonia… In tutta franchezza, la trama potrebbe stare su un fazzoletto di carta, e condividerne in pieno la volatilità. Quel che conta non è la dimensione reale, ma quella inconscia. I sogni eys wide shut di Stéphan, le idee che gli baluginano in testa, lo spostamento di realtà di cui soffre. Chi ha visto Eternal sunshine può avere un’idea dell’immaginazione al potere propugnata da Gondry. Ecco, qua si va oltre: pura gioia della visione e caos dionisiaco. Le prime immagini ci scaraventano nel sogno ricorrente di Stéphan: lo studio della sua Stéphan Tv. È l’ora del programma di cucina, e Stéphan ci illustra come preparare i sogni, a partire dagli ingredienti sia chiaro! Inizia la fase REM: ce la descrive ma non la vediamo, quel che vediamo sono i titoli di testa su una texture ipnotica che mischia il dripping di Pollock ai caleidoscopi in stile swinging London. Più tardi vedremo catastrofi ritmate dall’Instinct blues dei White stripes (vecchi amici di Gondry), città sorvolate mentre si fanno si disfano e si piegano, cavallini di pezza al galoppo, grotte da casa dolce casa, polar demenziali. La cornucopia sembra non aver fondo.
Il mondo di Stéphan è fatto di cartone, cellophane, cose morbide di pezza. Gondry ce lo presenta tramite un’animazione rudimentale e maieutica, quasi abbia davvero scoperto la materia di cui sono fatti i sogni. I meccanismi, l’estetica, il dialogo che ciascuno di noi produce di notte e dimentica al risveglio risbocciano nelle sequenze di The science of sleep. Nulla di più lontano dall’incredibile verosimiglianza degli effetti speciali digitali di ultima generazione, che privano il fantastico della sua alterità rendendolo più vero del vero. Qua vige la fantasia empirica e affastellante dell’infanzia: quella dell’animazione russa di novant’anni fa (Starewicz, in primis), dell’artigiano Svankmajer , dello studio PES. Fantasia selvaggia, semplice e totale. Ingenua e fragilissima. The science of sleep è un prodigio ottenuto con uno schiocco di dita e uno sbatter di palpebre, con i suoi dialoghi fanciulli e anali (Freud, intendo Freud), con le smorfie di Bernal e la presenza di Charlotte Gainsborough, con il campionario infinito e microscopico della vita di tutti i giorni. In cui capita di imbattersi in una macchina del tempo piccina picciò che funziona davvero e ci fa far balzelli avantindrè. Un mondo quotidiano, infine, senza Tv che non sia quella del sogno, quella che ci facciamo noi. In una lunga sequenza di passeggio, Stéphan accompagna un collega fino a un ponte dal quale buttano un apparecchio nella Senna. Libération! La bastarda, tuttavia, galleggia.