Uno dei due nuovi film di Uwe Boll in post produzione si intitola Auschwitz, scelta che ha generato il solito disapputo copia/incolla con modalità molto simili alla leggenda virale che annovera il regista di origini tedesche tra i peggiori del mondo, un tormentone diffuso ovunque tanto da alimentare il sospetto che siano davvero pochi ad aver visto più di un film diretto dal nostro. Rampage, grazie all’ennesima, abilissima, operazione di marketing, avrebbe dovuto rappresentare il confine, la svolta, l’allontanamento di Boll dagli Schlock videoludici estremi ed iperrealisti per un film brutale nato dalla sovrapposizione della soggettiva bellica con quella di una realtà circoscritta ad un contesto urbano; una distorsione percettiva scagliata con forza contundente e generata da un cortocircuito tra l’interno e l’esterno. Bill Williamson, vent’anni scarsi, vive in modo paranoide le pressioni della famiglia, quelle di un lavoro sottopagato e una persistenza killer dei mezzi di comunicazione di massa dai quali Boll isola un’ossessiva presenza sensoriale, doppiata da un suono addossato allo sguardo, sempre ai limiti con la saturazione; l’occhio e l’orecchio per Boll sono esattamente la stessa cosa, un sasso che colpita la testa, forza l’osservazione della realtà da un’angolatura amplificata. Bill non potrà far altro che generare ancora più rumore, indossare una tuta in Kevlar costruita su misura e con un set bellico completo ingaggiare una battaglia ferocissima contro la sua comunità sparando per le strade, entrando nei negozi, improvvisando esecuzioni di massa per risolvere il problema della sovrapopolazione. Il corpo post adolescenziale di Brendan Fletcher viene filmato sul confine tra fragilità e ferocia, un’inadeguatezza demente che è di gran lunga più potente del tappetino ideologico approntato da Boll e che rivela a poco a poco un corpo intrappolato, il disperato dibattersi di un Chaplin perverso e intubato su strade dove la scoperta dell’orizzonte è appiattita da un’illusione immersiva che è in realtà un cunicolo, un braccio meccanico, un remote control senza più sguardo. In fondo Boll non poteva far altro che illudersi di colmare la distanza con la realtà aumentandone l’effetto, facendo propria un’estetica già assorbita dagli smarthpone, dai software che aumentano la visione e seguono il movimento a partire dalla localizzazione geostazionaria. In questa arena senza scampo, Bill è un piccolo Robocop tragico, un corpo capace di sabotare questa infinita menzogna della soggettiva solo per rigetto.