E’ dalla celebrazione al Sundance di After The Flood (2001) che Robert Saitzyk in fondo non esce da quel recinto di protezione, la collaborazione in qualità di montatore ad un film come True Love (2007), commedia degli affetti dall’intelligenza progressista e di esemplare piattezza televisiva, pompata in grande stile dal Sundance Institute ne è un esempio piuttosto chiaro. Godspeed non fa eccezione e si porta dentro tutti i difetti di quel minimalismo da camera disperdendo qualsiasi intuizione visionaria. Eppure raccogliere le tracce del revenge movie e intrecciarle con un doloroso percorso di Fede era una materia che poteva consentire un lavoro sui segni di una certa forza. Charlie, dopo una vita spaccata in due dall’alcool e dalla fede, abbandona il suo rapporto con gli aspetti più ambigui della religione, quelli che gli permettono di esercitare le sue capacità taumaturgiche davanti all’assemblea di un Alaska rurale dove oltre alla parola di dio come interpretazione della realtà, assorbe la malattia con l’imposizione delle mani; l’improvviso massacro della famiglia lo costringerà ad abbandonare tutto e a ritirarsi in un eremitaggio ostinato, dove ossessionato dalla lettura della parola di Dio, cancellerà pagine intere della scrittura lasciando visibili solamente alcune parole in un cut-up che diventa a poco a poco segno di un’interpretazione tormentata del destino e del perdono. La via che conduce alla vendetta è in realtà biforcata e viene introdotta a poco a poco con un vero e proprio slittamento di senso che inquadra Charlie in un disegno di cui ignora i confini; è la propagazione del male in fondo a lasciar dietro di se una soggettiva relativa e sottoposta a rovesciamento. Lontanissimo anche dalla drammaturgia dello spazio di un classico come Elmer Gantry che riusciva in modo esemplare a far coesistere nella stessa inquadratura frode e fede, il film di Robert Saitzyk perde via facendo qualsiasi ambiguità tagliando fuori proprio la presenza di quei segni che si manifestano nella prima parte per un cinema che non riesce ad avere ne la forza fisica e semantica dei corpi che si annientano, ne a mantenere la relazione ambigua tra rivelazione e natura; in Godspeed si percepisce un’intollerabile distanza contemplativa dalla predeterminazione ingombrante, basta pensare al primo ingresso di Cory Knauf (pessimo e caricaturale), l’ossesso di un Dio vendicativo, in un confronto che si rivela da subito come una spaccatura didascalica della narrazione, un racconto senza nessun soffio visionario.