sabato, Novembre 2, 2024

Raw (Grave) di Julia Ducournau: la recensione

Justine (Garance Marillier) è la figlia minore di una famiglia di veterinari. In linea con la tradizione, dopo il diploma di maturità si iscrive a Veterinaria dove già frequenta la sorella Alexa (Ella Rumpf). In questo campus chiuso, spoglio e costituito da blocchi geometrici di derivazione brutalista, imperano forme violente di nonnismo. Tra le pratiche più diffuse quelle di un progressivo adattamento all’odore, al sapore e alla presenza aptica della carne. Le violenze e le costrizioni che Justine subisce sono quasi tutte connesse all’ingestione di un corpo estraneo, un pezzo di fegato, viscere crude. È un rito di passaggio che sottintende la trasformazione del corpo e allo stesso tempo l’incorporazione dell’ignoto, dove i limiti tra identità e caos primordiale si fanno sempre più labili.

Immerso nei colori accesi e allo stesso tempo lividi, fotografati dall’ottimo Ruben Impens (Alabama Monroe, Belgica, The Sky Above Us), il debutto di Julia Ducournau è un anti apologo che nel mettere al centro il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, trova nei rituali antropofaghi la via per raccontare il corpo femminile come luogo della differenza e della consapevolezza. Quello di Justine è assalito da violente allergie, si squama, cambia, ma sopratutto cerca un contatto indomito con la carne attraverso una prassi alimentare pericolosamente sul limite tra normalità e patologia. 

La fisiologia della microsocietà universitaria conserva i rapporti di potere sulla base della maggiore o minore prossimità al corpo, più questo è delimitato, maggiore l’influenza esercitata sull’intera comunità. Lo stesso mondo animale è fatto di carcasse, cavie, cavalli e cani destinati al tavolo autoptico; già deprivati di una qualsiasi identità, sono collocati ad una distanza specista che regola tutti i rapporti interni all’istituto.

Mentre Justine rifiuta strenuamente la differenziazione con il mondo animale, arrivando ad affermare che il dolore di una scimmia stuprata è lo stesso di quello subito da una donna, l’educazione imposta dal sistema formativo la forza verso una mutazione estrema. Le violenze “dal basso” vengono tollerate dal corpo accademico nello stesso modo in cui è necessario far emergere un rendimento medio dello studente in grado di neutralizzare le eccellenze e le anomalie. Quest’ultimo aspetto emerge in modo sottile e descrive drammaticamente l’anticamera del contesto sociopolitico attuale, dove l’università assume il ruolo di incubatore per una mediocrità “necessaria”.

Il cannibalismo di cui parla la Ducournau ha quindi poco a che fare con quello di Deodato e con l’immaginario post-coloniale, perché maggiormente legato alla relazione interno-esterno governata dall’economia del nutrimento, dove le logiche di incorporamento identitario sono osservate sul limite dell’esplosione e della deriva. Per Ducournau, che ha letto probabilmente Lacan ma anche Elias Canetti e Kristeva, Justine e la sorella diventano agenti di morte e distruzione facendo emergere un rimosso della società contemporanea, ovvero la distruzione dei corpi individuali che intercorre nel rapporto tra uomo e animale per come è  regolato dal primo, trasposta in una dimensione totalmente umana. 

La società tutta si basa su principi cannibalistici sottesi, i corpi non vengono mangiati ma si nega la loro esistenza, mentre l’unica modalità che Justine sta imparando per affermarsi e affermare la propria identità sessuale è quella dell’incorporazione attraverso l’orizzonte originario del cibo. Desiderio bruciante e minaccia, aggressività e dipendenza sono le pulsioni coesistenti che la spingono a cibarsi del corpo degli altri, una dimensione sintetizzata sopratutto nel rapporto con la sorella, mantenuto in piedi sul limite della lotta, dell’umiliazione e dell’amore divorante, appena un passo prima rispetto all’autodistruzione e assolutamente realistico nel raccontare rapporti di sangue istintivi e regolati dall’abiezione. 

Allo stesso modo l’appetito sessuale di Justine cresce proprio quando le viene negata qualsiasi altra agnizione identitaria se non al livello di una bestia che possa aderire agli schemi relazionali imposti. È simbolica, tenera e inquietante la sequenza in cui si trucca davanti ad uno specchio sull’inno nichilista e mortifero delle Orties. Simile a molte altre sequenze legate ai racconti di educazione affettiva, quel rispecchiamento sulle note e lo spoken word di “Plus Putes que toutes les Putes” diventa certamente un momento di riconoscimento del se e delle potenzialità del proprio corpo, ma anche il terribile radiogramma di una realtà sociale darwinianamente strutturata, che ha sostituito i sentimenti con la sopraffazione e la performance, oppure l’odore del sangue con quello dei make up artists.

Otres, Plus Putes que toutes les Putes – video ufficiale

I volumi razionali e gli spazi architettonici filmati dalla Ducournau ricordano “le fauci” di una prigione, gli studenti sono oggetto di scherno, parte di un gioco che è basato sul cannibalismo stesso, ma attentamente esorcizzato dal teatro della risata.

La forza del film della Ducournau risiede nella riduzione dell’estetica gore ad una dimensione intimamente realistica tanto da allontanarsi  nei momenti migliori dai pericoli di una supremazia del visivo sul tattile.

Dans Ma Peau – Marina De Van

Più vicina in un certo senso al cinema di Claire Denis, Marina De Van e Catherine Breillat, non riesce comunque a raggiungere la forza sotterranea di Trouble Everyday per colpa di un didascalismo sin troppo esplicito e preoccupato di spiegarci una traccia matrilineare.

Tra lo sguardo di Justine sulle cicatrici del padre e quello vitreo di Tricia Vessey sul rivolo di sangue che scorre dal vetro della doccia c’è uno scarto fortissimo tra intenzioni teoriche e il mistero del linguaggio.

Performance (Roeg/Cammell)

 

Claire Denis, Trouble Everyday (Cannibal Love – Mangiata viva, Francia 2001)

Rimane intatta la forza performativa di alcune sequenze dove l’ingresso nello spazio rituale coincide con quello dei luoghi di passaggio contemporanei: discoteche, camere, gli spazi di una festa, la città universitaria, gli ospedali. Se da una parte è forte la tentazione della regista francese di utilizzare i colori e le luci come tracce simboliche, fino a citare la violenza coloristica di “Performance” (Roeg/Cammell), in “Raw” sopravvive una sorprendente dimensione fisica come accadeva nel cinema di Aja, Maury/Bustillo e Laugier, dove la relazione tra interno ed esterno, ambiente e viscere era ancora in grado di trovare nel corpo o nella sua negazione, l’origine dell’unico gesto politico ancora possibile. 


Raw (Grave) di Julia Ducournau – trailer ufficiale

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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