Panorama è da quarant’anni, alla Berlinale, tra le più ispirate e stimolanti delle sezioni collaterali rispetto al concorso; nel tempo ha cambiato nome – prima era Info-Schau – ma non lo spirito né le intenzioni, che si sommano nella proposta di (e nella chiamata del pubblico a) un cinema che sposta più in là le barriere del cinema, della rappresentazione così come della visione, mettendo in discussione convenzioni narrative e consuetudini percettive.
In occasione dell’anniversario, Wieland Speck, che ne è stato curatore dal 1992 al 2017, viene chiamato a metterne in piedi una sorta di edizione straordinaria: Panorama 40. Lungi dall’essere una galleria espositiva di “best of”, la rassegna ripropone quei film che, outsiders tra gli outsiders, pericolosamente esposti a un limbo immeritato, meglio ne hanno colto il valore di esperienza prima che di proposta, e in senso lato prima che culturale.
Quantomeno contestuale, se non obbligata, appare quindi la scelta di includere nella selezione Tsai Ming Liang, regista di culto taiwanese, che ha mosso i primi passi nel lungometraggio proprio al festival berlinese del 1993 con Rebels of the neon god: oggi, pur collocandosi storicamente nel solco di quel Nuovo Cinema che per Tsai ha nel “metropolitano” Edward Yang il riferimento principale, il film si rivela nucleo embrionale di quella che sarà un’estetica personale fortemente tipizzata, e riveste, in quel di Berlino, il ruolo di testimone di percorsi esplorativi sempre possibili.
Più provocatorio che categorico nell’esprimere “disgusto” per “il cosiddetto valore di intrattenimento dei film, i meccanismi del mercato e la tendenza ad andare costantemente incontro ai gusti popolari”, sfida il pubblico a resistere, non tanto all’essere “slow” del suo cinema, che specifica una qualità di produzione del testo e di ricezione da parte dell’occhio, quanto alla propria indisponibilità di mettersi in campo, scongiurando per sé il rischio di un solipsismo autoreferenziale.
Rebels è ancora una storia, pur oltre le soglie del cinema narrativo, di trame sospese ma misurabili entro un contenitore dilatato e disorientante come Taipei (“dove siamo?”) e insieme asfittico, come quello schiacciante, schiacciato dalle pareti estranee di una stanza d’albergo.
Hsiao Kang (Lee Kang-Sheng), l’Antoine Doinel sudasiatico che ritornerà in tutti gli altri lavori del nostro, si muove inquieto tra gli spettri della tradizione – sua madre lo crede reincarnazione dell’impulsivo e ribelle dio bambino Nezha, e il fascino sporco e seducente della città, “dio neon” contemporaneo.
Segue, letteralmente, a noi manifesto, a loro sempre invisibile, gli spostamenti ondivaghi di tre adolescenti appena più grandi di lui, per finire ombra di Ah-tze, alter-ego di cui si appropria attraverso l’imitazione del gesto, un gesto che rimane però sempre mutilo, voyeurista, incapace di scavalcare la dimensione del vedere fino all’atto (della rapina, sessuale). “Nezha è stato qui” scriverà allora, sugellando gli sfregi alla moto di Ah-tze con una frase che palesa il dramma senza tempo dell’incomunicabilità.
Quella del regista è d’altro canto una iper-visione che inquadra le cose e i corpi così da vicino da mozzarli, altrettanto parziale e ossessiva nel costatare a livello micro (le cabine telefoniche, i pavimenti, gli ascensori, i letti) e macroscopico (la metropoli fluo dagli umori fatiscenti) la stessa impossibilità di conoscere e conoscersi.
“Più documentario del documentario, più reale della vita vissuta”, Tsai fonda The rebels of the neon god sugli archetipi di un genere (la camera a mano, la quasi assenza di colonna musicale, il montaggio ellittico) imbastendolo a sua volta di un apparato simbolico del tutto originale, che lascia già presagire certi esiti grotteschi (The Wayward Cloud, 2005), allucinati e onirici (The Deserted, 2017).
Infatti piove, l’acqua risale dagli scarichi, fluida e inarrestabile occupa gli spazi a suo piacimento, come una blatta che va e viene tra le mura domestiche, segna l’ignoto e il parallelo che si fa presente solo per affermare la propria insondabilità.