venerdì, Novembre 22, 2024

Redemption – Identità nascoste di Steven Knight: un ritorno dall’inferno

Disertore nella guerra in Afghanistan e perso nei bassifondi di Londra, Joey riscatta la sua vita nell'incontro con Cristina, una suora polacca con una tragica storia alle spalle.

Ottimo sceneggiatore, con due sole prove di regia, Locke, fuori concorso a Venezia70 e Redemption – Identità nascoste ora nelle sale, Steven Knight si rivela autentico cavallo di razza di un cinema che, per tanti aspetti, ricorda l’ossessivo dinamismo del thriller hongkonghese di Dante Lam, corroborato dall’ impassibile shock visivo dei personaggi di Steve Mc Queen.
Joey Jones e Ivan Locke, trait d’union di un territorio che, da New York all’estremo oriente, è popolato da uomini persi nell’inferno della solitudine metropolitana, vivono a Londra la loro esperienza umana, segnati nella pelle e fino in fondo all’anima da tutte le piaghe della loro civiltà.

Mi hanno messo in cima ad una montagna e mi hanno detto “Uccidi”. Come pensavano che ne sarei disceso?” dice Joey (Jason Statham), ex soldato in Afghanistan, fuggito dai Corpi Speciali dopo un massacro dei suoi in cui si è scoperto massacratore per vendetta anche lui. Ora è sotto Corte Marziale come disertore, perciò è costretto a nascondersi nei bassifondi della città. Inseguito da balordi per aver difeso la ragazza con cui divideva il cartone, si rifugia passando per il lucernaio nell’appartamento di un ricco proprietario. Da indizi sparsi capisce che l’uomo tornerà solo fra tre mesi, e così comincia a ricostruirsi. Diventare una specie di gangster al soldo della mafia cinese sarà inevitabile, deve trovare la ragazza rapita dai mercanti di donne, deve saldare i conti con una moglie e una figlioletta abbandonate dai tempi della guerra, sono troppi i conti in sospeso e nessuna prospettiva di vita normale per un reduce da una guerra sporca. Knight tiene in equilibrio anime diverse dentro la stessa storia, concilia registri normalmente in rotta di collisione e crea un thriller dal volto umano, fatto di sapiente alternanza di momenti intimistici e virate ipercinetiche, con buona esibizione di tecniche marziali in cui sappiamo Jason Statham eccellere. A Joey affida il magnetismo dell’eroe unico, a momenti ne enfatizza il ruolo con un montaggio parossistico, ma poi ne fa un personaggio umano e credibilmente disastrato, un perfetto déraciné che la guerra ha spolpato e per cui non si aprono più molte strade.

Narrazione modulata per climax ascendenti, entra subito in tensione e getta fasci di luce sul profilo interiore e le vicende passate dei personaggi che arrivano in scena. La città è il luogo dell’incontro e dello scontro, incontrollabile e notturna, poche le riprese diurne, e sempre in quella sovraesposizione da risveglio alcoolico che toglie spessore e colore alle cose. Movimenti di macchina e inquadrature singole, spezzoni video girati da flycam che spiano ogni frammento di vita pubblica, è una Londra in cui Covent Garden e Royal Opera House, interni lussuosi in grattacieli con vista Tamigi e loft molto trendy in vecchi quartieri recuperati convivono con ghetti putridi, devastati da regolari incursioni di malavitosi in cerca di materiale umano per il giro di prostituzione o lo spaccio di droga. La mafia cinese domina sovrana con apparati di efficienza tutta orientale, al singolo diseredato non resta che imboccare la strada della violenza o cercare un piatto di minestra calda nella Caritas locale, cioè da suor Cristina (Agata Buzek ) che, puntuale e asettica come solo una giovane suora sa essere, arriva ogni giorno nel cortile della Chiesa di Saint Paul col furgone delle Sisters Redemption’s, e per tutti ha una buona parola nel suo leggero accento polacco.

Rendere plausibile la nascita di un legame fra un gangster ed una suora è stata la sfida di Knight. Perché di questo si tratta e da lì pesca, forse con un po’ di enfasi, il titolo italiano. Migliore l’originale, Hummingbird, il ronzìo dei colibrì è l’ossessione nel cervello di Joey, la redenzione un’esagerazione linguistica limitata al furgone della suora. Affiora qua e là una vena ironica che smonta il reale rivelandone la qualità, e la redenzione di Joey non può che passare per l’adozione di una violenza necessaria, lì dove la ragione ha abbandonato il campo e la fede, dice suor Cristina, è “ la scusa per evitare di guardare me stessa”. Ma suor Cristina che dubita del Dio dei santi sa restare fedele al suo Dio dei miseri. Una suora molto anomala, Cristina, come un gangster molto anomalo è Joey, ma entrambi arrivano fino in fondo alla loro strada. La vita ha deciso per loro, l’unica coerenza possibile è seguirla fino in fondo, non siamo in una favola, è tutto molto reale, così reale da non lasciare spazio neppure ad un sogno.

Il  finale del film, quello dove una barca senza una buona guida si sarebbe facilmente incagliata in un esito scontato, è invece uno dei momenti migliori. C’è la tenerezza ruvida di un sogno svanito in un’infanzia precocemente violata, e Cristina si accontenta di guardare da lontano la famosa ballerina che avrebbe voluto imitare. C’è l’amarezza di due mondi così straordinariamente vicini messi di fronte in una prospettiva impossibile. C’è, infine, un guardare al dramma sociale e alla catastrofe esistenziale misurandosi realisticamente con le proprie forze, che, in definitiva, altro non è che accettare la propria solitudine come autentico segno di indipendenza.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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