Home alcinema Revenant – redivivo di Alejandro G. Iñárritu: la recensione

Revenant – redivivo di Alejandro G. Iñárritu: la recensione

Alejandro G. Iñárritu si ispira al romanzo scritto nel 2002 da Michael Punke e ambientato nelle foreste americane del 1800, cercando di elaborare, almeno nelle intenzioni, il senso più intimo di una wilderness estrema, quella che Hugh Glass, interpretato da Leonardo DiCaprio, è costretto ad affrontare dopo il raid di un gruppo di Nativi ai danni della spedizione di caccia di cui fa parte, situazione aggravata da una lotta furibonda con un orso bruno, che riduce il povero Glass in fin di vita.

Andrew Henry (Domhnall Gleeson), Glass, il figlio meticcio Hawk (Forrest Goodluck), e John Fitzgerald (Tom Hardy) rimangono indietro con il compito di accudire l’uomo gravemente ferito e con l’ordine di lasciarlo al suo destino solo quando il pericolo di un ennesimo attacco da parte dei nativi si dimostri effettivo.

Fitzgerald, attraversato da un cinico pragmatismo e da idee fortemente razziste non rispetta i patti tentando di uccidere Glass e facendo secco il figlio. Ma nonostante la sepoltura forzata e improvvisata, l’uomo riesce a resistere e a curarsi le ferite in una lunga lotta con la natura e gli agenti atmosferici, animato da un feroce sentimento di vendetta.

Iñárritu torna a collaborare con Emmanuel Lubezki a cui spetta sostanzialmente il contributo maggiore insieme alla titanica interpretazione di Leonardo DiCaprio, che ingaggia un vero corpo a corpo con le trappole disseminate dalla scrittura del regista messicano elaborata a quattro mani con la collaborazione di Mark L. Smith, sceneggiatore che con Martyrs aveva offerto ben altra prova. Le analogie con il film di Pascal Laugier sono tra l’altro evidenti, nel tentativo di creare un percorso che possa riservare continue sorprese per lo sguardo, ma dove nel film francese c’era una precisa relazione tra scrittura e slittamento di senso, in un progetto più complesso sulla persistenza della violenza, in Revenant si ha la sensazione che questa flagranza inseguita ad ogni costo segua il tracciato obbligato di una brutta partita al gioco dell’oca. Non è solamente la catena di disgrazie che colpiscono con inesorabilità meccanica la via crucis di Glass, ma anche questa prossimità insistita della macchina da presa, gli schizzi di sangue sull’obiettivo quasi a voler denunciare la presenza del dispositivo ed infine quel movimento ondivago che occupa i primi trenta minuti, concepito come sguardo aderente ai corpi, ma di fatto lontanissimo dalla loro verità, per quell’applicazione di un metodo insistente che si traduce in brutta e ingombrante calligrafia.

Rispetto alla freddezza matematica di Birdman, film letteralmente eseguito come se ci fossero delle indicazioni di percorso per una performance, rimane la medesima mancanza di sincerità, con l’aggravante di una confezione più scabra e sanguigna che dovrebbe fare la differenza in nome di un’essenzialità più dichiarata che altro. Non è così e se c’è qualcosa che fa davvero la differenza questa è l’interpretazione di un DiCaprio ridotto al silenzio, costretto ad ingaggiare una lotta interpretativa con il suo stesso regista per trovare uno spazio di verità. Sul corpo di DiCaprio, (anche) autore dei film che interpreta rimandiamo alla recensione de “Il grande Gatsby“.

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