Coralie Fargeat è al suo primo lungometraggio con “Revenge“, ennesimo rape and revenge che rilegge per l’ennesima volta “I spit on your grave” di Meir Zarchi con insistito gusto pop, anche dal punto di vista cromatico. Dal deserto iridato, riflesso sui rayban di Richard (Kevin Janssens), la villa di sua proprietà in mezzo alla distesa di sabbia si avvicina progressivamente. Con lui la bombshell Matilda Lutz, qui nella parte di Jen, insieme per un’avventura extraconiugale in un Marocco che la Fargeat fa di tutto per trasformare in location messicana.
Sesso, colori sparatissimi e un voyeurismo insistito che sembra l’unica forma di linguaggio disponibile per la regista e sceneggiatrice francese, utile per un classico quanto innocuo rovesciamento di prospettiva.
Jen si struscia ad ogni cosa, fino a mostrare la sua ingenua sfrontatezza con gli amici dell’amante appena sopraggiunti per una periodica caccia grossa nella zona. Stan (Vincent Colombe) e Dimitri (Guillaume Bouchède) sono due figure luride e repellenti con le quali la donna si intrattiene a debita distanza, giusto per alzare i livelli più basici di testosterone. Una messa in scena fintissima, costruita senza reale tensione, che gioca con gli stereotipi dello sguardo, immergendocisi fino in fondo, nonostante le intenzioni siano quelle di ribaltarne i presupposti.
Quando il più schizzato dei due, interpretato da un Vincent Colombe magnificamente stupido e sopra le righe, perderà la testa per Lutz, Revenge precipiterà irrimediabilmente verso il climax dello stupro, filmato dalla Fargeat attraverso i vetri colorati della mansion, mentre Dimitri fa finta di non vedere, alza il volume della TV e si concede un bagno in piscina con l’orizzonte a perdita d’occhio.
La faccia di Jen compressa sul vetro, Stan che la sodomizza e i colori di un Marocco irreale a comporre un disegno più vicino agli spot automotive degli anni novanta che al cinema estremo francese, senza ovviamente i risultati dell’ottimo The Conselour di Ridley Scott né il coraggio plagiarista di Cattet-Forzani.
Richard torna a casa e scopre le violenze subite da Lutz. Senza essere minimamente preoccupato per la sorte della donna e dopo averle offerto una trasferta tutto compreso in Canada come gesto riparatorio, al diniego ostinato della ragazza, decide di sbarazzarsene nel modo più brutale ed efferato gettandola in un precipizio.
Da questo momento in poi il film imbocca una via volutamente fumettistica, non solo per i colori, il montaggio e i toni, ma anche per l’attenzione iperrealista ai dettagli, incluse le formiche che si nutrono del sangue della povera Jen, mentre è rimasta sospesa per aria, trafitta da un arbusto appuntito.
La resurrezione e la preparazione di Jen si farà attendere per poco tempo, con una progressiva trasformazione in angelo della vendetta, armata sino ai denti e pronta a mettersi al centro di un desert movie con vaghi echi milleriani, tutto giocato sui tempi, sul ritmo e su una funzionalità certamente eccellente, ma facilissima e ormai vista migliaia di volte.
Gore e fumetto sono il propellente del film della Fargeat, non certo il femminismo volgare che le interessa, senza per altro intaccare regole, linguaggio, semantica del cinema “corrotto” dallo sguardo maschile.
Nel bagno di sangue è più sorprendente lo slapstick di Vincent Colombe che cerca di togliere un corpo estraneo dal piede squartato, rispetto alla ferocia esibita della Lutz, comunque in grado di interpretare una figura animalesca e rituale, attraversata da una notevole forza primaria.
La Fargeat sfortunatamente non riesce a capitalizzare molto di più dall’ambiente e dai suoi attori, con una fantasia gore-pop fuori tempo massimo, che parodizza il modello culturale americano grazie al ricorso trito e ritrito all’advertising, alcune citazioni maldestre dal cinema di Pekimpah, i sogni losangelini della Lutz prima del bagno di consapevolezza e quel duello “militare” dentro l’hi-tech mansion, che non cambia né sposta il nostro punto di vista di un millimetro.