Jose Manuel Cravioto è tra quei nuovi registi messicani cresciuti nel contesto del Los Cabos International Film Festival. Arricchito da un forum sulla co-produzione per agevolare l’asse Messico – Stati Uniti e Canada, l’evento è recentemente diventato un bacino capace di far dialogare produttori nativi con distribuzioni legate al suolo statunitense. È il caso della recente acquisizione da parte della Paradigm del film di Cravioto e di altre produzioni firmate da Daniel Posada. Reversal è passato quindi dal Sundance come next big thing, ma ha raccolto pareri assai discordanti.
Prendendo le mosse da alcuni revenge movie al femminile, il film è in realtà più convenzionale di quello che vorrebbe far credere per il modo in cui bara continuamente con lo spettatore, utilizzando il materiale al solo scopo di accumulare deviazioni e “twist” narrativi schematicamente meccanici.
Il primo rovesciamento è quello che si verifica immediatamente tra vittima e carnefice. Eve (Tina Ivlev) è incatenata in un seminterrato. Il suo carceriere la nutre di tanto in tanto, ma la prima distrazione emotiva dell’uomo consente alla ragazza di colpirlo a morte e di assumere il controllo della situazione.
Da questo momento in poi il film di Cravioto diventa una quest senza fine alla ricerca di altre vittime nascoste a distanza di chilometri. Eve, nell’intenzione di salvarle tutte, costringe il suo carnefice a guidarla nelle diverse location, entrando in contatto con figure martoriate, la cui relazione con la prigionia si rivelerà molto diversa dalle aspettative, inclusa la sottomissione anelata e la riduzione di qualsiasi facoltà cognitiva.
Senza peoccuparsi delle cause di questa lunga catena di orrori, sembra che Cravioto non sia in grado di entrare in contatto con la dimensione anche più inaccettabile del martirio, tanto che l’improvvisa intrusione in questi spazi viene assimilata come un dato di fatto, senza quel processo di trasformazione della psiche e del corpo che al contrario è alla base di un film seminale come Martyrs di Pascal Laugier, rispetto al quale Reversal, pur con intenzioni e risultati diametralmente opposti, vive di rendita.
Se il “gesto” politico di Eve sembra avvicinarsi alla riappropriazione soggettiva della Jennifer di Meir Zarchi, manca del tutto quella persistenza della violenza che renda credibile il cambio di prospettiva. I movimenti di Reversal hanno una tripla funzione. La prima si avvicina alla prospettiva frontale di un videogame tra arcade e Shoot ‘Em Up, con il progressivo svelamento di spazi e informazioni da parte della donna, la seconda è un vero e proprio viaggio a ritroso verso la scoperta di una realtà più terribile di ogni previsione, tanto da far convergere con le stesse origini del male i continui rimandi ai footage filmati con il fidanzato durante tempi più felici. La terza, sicuramente la più importante per Cravioto, è sovrapporre il punto di vista del torturatore con quello della ragazza, più che un rovesciamento quindi, una linea dello sguardo che arriva a concidere, tanto da ridurre le necessità di sopravivvenza a favore di scelte che condividono la stessa violenza.
Interessante sulla carta, ma del tutto fallimentare per il modo in cui è realizzato.
Il modo in cui Cravioto ci conduce in questa dimensione è allineato alla soggettiva di Eve; noi ignoriamo esattamente come lei e i frammenti audiovisivi fanno parte di un continuo assalto della memoria che la nostra cerca in qualche modo di ricombinare con la crudezza della realtà.
Quello che non convince, in questo metodo solo apparentemente rigoroso, è il continuo slittamento del gioco percettivo, un meccanismo artificioso che potrebbe essere reiterato all’infinito e che è completamente distante dalla vita dei personaggi, ormai tramutati in bestie feroci oppure vittime di un orrore pervasivo mostratoci come dato di fatto.
Persino l’ambiguità della sequenza conclusiva, con quei continui flash forward che per tutto il film emergono come versione contrastante e manierista dei flashback audiovisivi, pur alludendo ad un possibile e ulteriore rovesciamento dei ruoli, con Eve che rimane a metà tra imboccare o meno la strada della carneficina famigliare, perde totalmente di forza emotiva, anche nella sovrapposizione tra efferatezza e nido incontaminato. Se Cravioto voleva raccontarci che il male più oscuro nasce in un contesto casalingo, che lo sguardo della violenza contamina tutti, che l’emersione dagli inferi porta dritto ad una suburbia illuminata dal sole, è forse consigliabile rivolgersi altrove, verso altro cinema.