L’aria pacifica, i capelli bianchi, gli occhiali, il sorriso cordiale e il fisico ancora giovanile. Incontrando Richard Gere oggi è difficile sovrapporre l’immagine di questo gentile signore di mezza età con il ragazzo che a cavallo fra gli anni 70 e gli 80 ha incarnato col suo volto e il suo corpo il simbolo di una mascolinità spregiudicata, disinibita, affascinante e sentimentale (American Gigolò, Ufficiale e gentiluomo, All’ultimo repiro) per poi reincarnarsi all’inizio dei 90 come eroe romantico (Pretty Woman, Se scappi ti sposo, Autumn in New York) entrando nel nuovo millennio come marito devoto, talvolta persino tradito e rassicurante figura paterna (Shall we dance, Parole d’Amore, Hachiko, L’amore infedele) cimentandosi anche in performance più anticonformiste (Il dottor T e le donne, I’m not here, Chicago).
Certamente con una delle carriere più longeve e di successo di Hollywood Richard Gere si presenta ai giornalisti e alla stampa romana presso l”Auditorium Parco della musica con fare cordiale e sorridente, sorseggiando tè verde e scusandosi di non poterlo condividere con tutti scherza sul premio Marc’Aurelio che si appresta a ricevere: «Non sarà mica uno di quei premi che si danno ad un attore quando la sua carriera è ormai finita e lui è pronto per la pensione? Ovviamente scherzo, io amo l’Italia e sono davvero lusingato; mi piace inoltre ricordare che il mio primo premio internazionale fu il David di Donatello per I giorni del cielo di Terence Malick.»
Sull’attuale situazione dell’industria cinematografica americana: «Io ho cominciato a lavorare in una delle epoche d’oro di Hollywood nella quale gli studios erano disposti a rischiare e c’era uno spirito pionieristico. Ora la situazione è molto cambiata ovviamente dal punto di vista economico, ma non solo. Non ci sono finanziamenti,ne energie e non si incoraggia la creatività dei giovani autori.»
Parla della sua forte spiritualità che lo ha portato a convertirsi al buddismo molto giovane: «Credo che chiunque prima o poi provi disagio nell’universo in cui vive e quando è successo a me ho voluto capire. Ho compiuto degli studi in proposito e l’approccio al buddismo mi a colpito a diversi livelli. Ho capito che ci sono tanti stimoli che possono fuorviarci ma che certe pratiche possono aiutarci a ritrovare la condivisione e l’amore.»
A proposito de I giorni del cielo (1978) di Terence Malick che è stato riproposto al pubblico della Sala Sinopoli nella serata del 3 novembre: «Quando l’ho girato avevo appena 26 anni e successivamente non ho più avuto l’occasione di rivederlo e l’appuntamento di questa sera è qualcosa che sia io che mia moglie, che mi ha accompagnato a Roma, viviamo con trepidazione.» E alla sorpresa per la nonchalance con la quale ammette di non aver più rivisto il film per il quale ricevette il David di Donatello risponde serafico: «Per me quello dell’attore è stato, è e sarà un ottimo mestiere ma verso il quale non ho mai nutrito troppe aspettative. Sono molto umile nei confronti di quello che faccio ed è un piacere continuare a lavorare, ma non è il centro del mio universo, è la vita quello che mi interessa e soprattutto il futuro di mio figlio che ha 11 anni. Se dovessi fermarmi non sarebbe un problema, credetemi.» E sulla sua immagine di sex-symbol: «Non me ne sono mai neanche reso conto perché non è la realtà ma un’etichetta. Ho sempre considerato il mio lavoro come un impegno molto serio, e pur non avendo mai accettato ruoli facili ho sempre cercato di non esagerare dei sentimenti che mi conducessero all’ansia»
Per ciò che riguarda il mio impegno col Tibet negli anni ho ricevuto molte sceneggiature a riguardo, ed essendo un argomento che mi tocca così tanto rimango attento a qualsiasi cosa possa essere d’aiuto ai miei fratelli e alle mie sorelle tibetani. Ritengo che il lavoro fatto da Martin Scorsese con Kundun non sia stato ancora eguagliato e potrebbe essere interessante raccontare la vita del Dalai Lama dal ’59 ad oggi.
Nella mia personale scala di valori al primo posto ci sono la mia famiglia e i miei maestri; purtroppo uno di loro è scomparso di recente e sono stato a Katmandù per incontrarmi con gli altri e meditare con loro. A 62 anni sono convinto che ciò che siamo è l’amore e la generosità e che alla base di tutto ci sono la saggezza e la compassione, non la durezza.»
Inevitabili le domande sullo stato di crisi economica che ha messo in ginocchio Wall Street e le proteste che ne sono derivate: «Tutto ciò è frutto di un’avidità senza confini e quello che è triste è che chi ha causato questo stato di cose è stato premiato e non punito. Solo quando i potenti cominceranno a capire ed ad assumersi le loro responsabilità come facciamo tutti le cose potranno cambiare.»
Torna volentieri a parlare di cinema Richard Gere e quando gli chiedono quale è il giovane attore che maggiormente apprezza risponde senza esitazione Ryan Goslin, mentre a proposito delle nuove tecnologie e del digitale ricorda i progetti pionieristici di Francis Ford Coppola: «Mentre giravamo Cotton Club nel 1983 Francis sognava di girare un film interamente col computer e noi lo credevamo un pazzo. Non sono spaventato dalla tecnologia, si possono fare dei buoni film avvalendosene, ma personalmente credo che finisca per mancare la magia e la fascinazione di ciò che è l’interpretazione che è impossibile da ricreare artificialmente. Per me una bella storia raccontata attorno ad un tavolo rimane più emozionante di un brutto film girato con le tecnologie più avanzate che ci sono a disposizione.» Continua raccontando dei suoi inizi nel cinema: «Ho realizzato che era veramente ciò che volevo fare quando ho fatto il mio primo provino. Ero sempre stato affascinato dal teatro, dal palcoscenico e da tutto quello che riguarda l’interpretazione, ma è stata l’energia scaturita dentro di me dopo il primo provino a farmi capire che la mia vita iniziava da lì.» Riflette anche sulla fortuna che negli ultimi anni hanno ottenuto i film prodotti dalle tv via cavo: «Io adoro guardare i film della HBO, sono prodotti ottimi che costano come produzioni indipendenti ma che richiamano un pubblico sempre maggiore.»
Arrivati alle ultime battute dell’incontro scatta l’inevitabile domanda su un possibile ricorso alla chirurgia estetica: «È qualcosa che proprio non mi riguarda.» taglia corto l’ascetico Mister Gere con la voce ferma e con un sorriso pacifico.