Richard Gere è Franny, un affascinante milionario con un segreto ma rivelato. Non lavora e ha trovato nella beneficienza la sua unica ragione di vita. Quando dopo anni ritrova Olivia (Dakota Fanning), la figlia dei suoi più cari amici, sposata e in procinto di diventare madre, Franny non riesce a fare a meno di “aiutarla”. Offre così a Olivia e a suo marito incredibili opportunità, cercando al tempo stesso, di gestire la loro vita in modo sempre più invadente, fino a quando quel segreto nascosto riemergerà dal passato con conseguenze inimmaginabili.
Del film diretto da Andrew Renzi, in 150 sale italiane dal 23 dicembre grazie a Lucky Red, e della figura complessa e misteriosa di questo uomo in crisi ne ha parlato lo stesso Richard Gere, ospite ieri della conferenza stampa romana a cui ha partecipato anche indie-eye. Vi proponiamo una trascrizione fedele delle domande fatte dai giornalisti presenti, incursioni (numerosissime) extra-cinematografiche incluse.
Come mai stai optando per questi ruoli così duri e così profondi, come quello di Franny e quello dell’homeless di Time Out of Mind (N.d.r. di cui Richard Gere era anche produttore) in questo momento della tua carriera?
Più i film sono difficili, più ci si diverte. In realtà non c’è niente di semplice nella vita. Qualunque persona e qualunque personaggio porta con se grandi complessità. Perché quindi ridurre la vita ad una cosa semplice quando non lo è? Qualsiasi personaggio io interpreti può sembrare semplice in superficie, ma se si scava a fondo emergono tutte le sue contraddizioni. Oltre ai film che hai citato c’è anche Oppenheimer Strategies. Anche questa, come le altre due è una produzione indipendente. Sono stati girati tutti con budget ridotti e in pochissimi giorni.
Come dovrebbe reagire l’America ad un massacro come quello di San Bernardino? Per te è un atto di terrorismo o dipende dalla facile reperibilità delle armi nel paese?
Innanzitutto, come forse già sapete, gli Stati Uniti sono il paese in cui ci sono più armi in circolazione rispetto a qualunque altro paese del mondo. Ci si aspettava che dopo un massacro del genere, come quest’ultimo avvenuto recentemente, ci sarebbe stata una sollevazione popolare per dire basta alla distribuzione delle armi e frenare la loro facile reperibilità, e invece è successo esattamente il contrario. La reazione non c’è stata. Bisognerebbe affrontare le cause profonde del problema. Cercare di capire perché queste cose succedono, perché le persone si comportano così male, perché arrivano a compiere gesti di tale violenza. Negli Stati Uniti si ha spesso la tendenza ad affrontare gli effetti, quando ormai è troppo tardi, piuttosto che andare a fondo nelle cause e cercare di fare qualcosa. Chiaramente se qualcuno si comporta male, come in questo caso, è giusto che venga punito dalla legge e che essa debba prevalere. Sono però assolutamente contrario a tutta questa ondata legata allo spirito di vendetta e all’iper-protezione. Bisognerebbe veramente scavare dentro e capire perché certe cose succedono, cercando di tornare poi a quelle che sono le qualità e le radici e l’essenza stessa degli esseri umani, come l’amore, l’affetto, la compassione, la saggezza e la comprensione. Bisogna insistere su questi aspetti e cercare di capire perché alcune persone arrivano a comportarsi in questa maniera.
Che cosa ha cambiato della sceneggiatura originale di Andrew Renzi?
Io credo di non aver mai lavorato a un film la cui sceneggiatura non sia poi stata cambiata in corso d’opera. Succede in tutti i film. Anche perché poi quando si arriva sul set ci sono tanti altri elementi che entrano in gioco. C’è una pressione diversa e cominci a guardare il film anche dal punto di vista estetico in maniera diversa rispetto a come hai guardato fino a quel momento la sceneggiatura. Chiaramente ci sono dei casi in cui i cambiamenti dalla sceneggiatura al girato sono radicali, altri invece minori. Si discute con i produttori l’evoluzione della storia e poi si passa dalla sceneggiatura al film che viene girato sul set.
Considerato che in questo personaggio ci sono diversi Franny, quello disperato, quello entusiasta, quello che rinfaccia il bene che ha fatto, come se ci fossero diversi uomini in uno solo, volevo sapere quale per lei è stato il più difficile da interpretare?
Sicuramente questo film avrebbe potuto essere girato e realizzato in maniera totalmente diversa. Avremmo potuto insistere di più sull’aspetto dello stalking, ovvero sulle attitudini di quest’uomo che, per essere generoso, arriva quasi a perseguitare questi ragazzi come se fosse uno stalker, ma non erano queste le intenzioni. Si poteva insistere di più anche sulla sua dipendenza dai farmaci, ma anche questo sarebbe diventato un cliché. Io invece volevo metterci molteplici aspetti e volevo aggiungerci anche una certa dose di umorismo. In fondo nella vita tutte le situazioni, anche le più tragiche e le più tristi, hanno un lato umoristico. Più sono tragiche e più spesso sfociano nel black humor. Sicuramente non volevamo ridurre tutto a un solo aspetto del personaggio. Un altro elemento che rimane nel vago è quello legato alla sua sessualità. Nelle prime proiezioni che abbiamo fatto, quando eravamo ancora in fase di montaggio, ci siamo posti delle domande anche su questo. Ma secondo noi non era necessario che emergesse. Come dicevo prima, abbiamo voluto evitare di procedere per generalizzazioni ed etichette e di inserire in una categoria ben precisa il personaggio. Il fatto che non si sappia poi quale sia il suo orientamento sessuale è secondo me irrilevante ai fini della storia.
Come è stato lavorare con Andrew Renzi, regista alla sua prima esperienza? (N.d.r. – Andrew Renzi ha già diretto un documentario nel 2014 intitolato Fishtail, Franny è il suo primo film propriamente di “finzione”)
Il regista ha scritto la sceneggiatura e ha inventato questo personaggio molto affascinante, quindi sapevo già con chi avevo a che fare. È il suo primo lungometraggio, ma aveva già diretto dei cortometraggi, quindi ha una conoscenza molto precisa dei movimenti della macchina da presa e una conoscenza profonda di quello che è lo stile cinematografico. Prima di arrivare sul set, più lavoravo con lui, più ci chiacchieravo e più mi convincevo di aver fatto la scelta giusta nell’aver accettato questo ruolo. La fiducia era alta ed è piano piano cresciuta. Fare il regista è una questione di esperienza che si accumula film dopo film, ogni tanto si è rivolto a me o a qualcuno sul set con un po’ più di esperienza per chiedere qualche consiglio. Abbiamo un rapporto molto buono e siamo diventati amici. È un ragazzo di grande talento e siamo molto fieri del prodotto che abbiamo realizzato. La fiducia che si è creata tra di noi e aumentata conoscendolo e sapevo che stava raccontando una storia molto personale, così come è successo quando ho lavorato nel film Arbitrage qualche hanno fa dove. Anche in quel caso il regista era alla prima esperienza e raccontava qualcosa di molto personale. Inoltre intorno a Renzi c’era anche un team creativo e produttivo con una grandissima esperienza ed erano molto affiatati tra di loro. Anche questo sicuramente ha aiutato, ma il fatto che lui stesse raccontando una storia molto personale, sia per quanto riguarda il film in sé che per il personaggio, la città e soprattutto la casa, che diventa uno dei protagonisti del film, è stato importante. È una casa che lui conosce molto bene perché quando era bambino ci ha trascorso tanto tempo. Nonostante fosse alla sua prima esperienza, tutte queste cose hanno sicuramente aiutato la realizzazione del film.
Lei dice che quando viene in Italia si diverte molto. Farebbe un film in Italia e con quale regista lo farebbe, oppure il casino che facciamo la scoraggia?
Io sono molto aperto a lavorare in Italia, il casino non mi scoraggia, però sono tante le ragioni per cui alla fine si arriva a realizzare un film oppure no. Non sono schizzinoso, ma ci sono tanti elementi che devono mettersi insieme per creare quell’alchimia fantastica che porta alla realizzazione di un film. Per qualche motivo questa alchimia che mi consenta di fare un film in Italia ancora non si è verificata, ma io sono molto aperto a questa possibilità. Farei un film con Bernardo Bertolucci, ma ci sono tanti altri registi italiani di talento con i quali mi farebbe sicuramente piacere lavorare. Prima che decida di smettere di recitare magari arriverà anche un film italiano.
Il film parla di sensi di colpa, lei ha mai provato dei sensi di colpa nei confronti di qualcuno?
Chi in questa sala non si è mai sentito in colpa nei confronti di qualcuno o per qualcosa? Sicuramente Franny in questo film è un personaggio piuttosto misterioso, ma come ho detto prima tutti quanti siamo complessi. Non è possibile offrire definizioni univoche. La storia che raccontiamo nel film, compreso l’incidente, ha qualcosa di misterioso. È questo che mi interessa poi anche nella vita, scavare in questo mistero e andare a fondo. C’è sempre una causa e una conseguenza a tutto e non si manifesta mai direttamente. Non credo la nostra venuta al mondo sia tabula rasa. Nasciamo tutti con un particolare tipo di carattere e se riuscissimo a capire questo, seguiremmo con più facilità il corso della vita e tutte quelle cose determinate da un rapporto causa-effetto. Il mistero è quello che abbiamo di più bello nella vita. Anche in Time Out of Mind c’è il mistero, quello della vita. Time Out of Mind è appena uscito in Spagna con il titolo di Invisible. Non so se anche in Italia si intitolerà così. iI titolo inglese è ispirato a Shakespeare e probabilmente nelle altre lingue non è così facile da capire. Ci avviciniamo molto di più alla realtà rimanendo nel mistero piuttosto che se tentassimo di spiegare con una ragione ben precisa quello che succede.
È più difficile per questo tipo di produzioni riuscire a trovare finanziamenti?
La produzione negli States segue criteri diversi rispetto all’Italia. In America quando si fa un film di cinque o otto milioni di dollari, che per l’Italia credo siano tantissimi, siamo nella fascia dei film a basso costo. Con quella cifra secondo me si può fare qualunque tipo di film, basta lavorare in un determinato modo. In Franny, ad esempio, abbiamo girato in trentuno giorni, con Time Out of Mind siamo stati sul set soltanto ventuno giorni. Quando si ha un budget ridotto si lavora in maniera molto più concentrata e in realtà molto più spontanea. Si mantiene anche la freschezza della recitazione e non si perde troppo tempo sulle luci e le inquadrature. C’è anche una maniera più veloce di reagire a quelle che sono le decisioni e si possono raccontare storie di questo tipo con un risultato comunque ottimo. Mi piace lavorare in questa maniera proprio per la spontaneità che si trova in questo tipo di produzioni. Ormai sono molto aperto e disponibile a partecipare alla realizzazione di film a basso costo anche perché ho avuto il privilegio di lavorare in passato in produzioni molto più importanti e ora posso permettermi di fare film in cui vengo pagato di meno. È una modalità di lavoro che mi interessa molto.
In Franny ho ritrovato moltissime caratteristiche di Howard Hughes è una mia allucinazione?
Sì, c’è un po’ di Howard Hughes nel personaggio di Franny e c’è anche un po’ di Ernest Hemingway. C’è una fotografia che mi aveva colpito molto di Hemingway e dalla quale ho preso spunto per esempio quando sono nella vasca da bagno. Ma la cosa che mi piaceva di più del personaggio di Hemingway è che alla fine della sua vita si era lasciato molto andare. Era trasandato, aveva messo su un sacco di chili e anche il personaggio di Franny fa lo stesso. Anche io come attore, per arrivare a interpretare Franny mi sono dovuto lasciar andare. Torno, anche in questo caso, alla questione del mistero perché anche la personalità di Howard Hughes non era limpida. Ci sono dei misteri che ancora lo circondano e proprio per questo c’è un qualcosa di lui nel personaggio di Franny.
Durante la trasmissione televisiva condotta da Fabio Fazio lei ha detto che vedrebbe bene un incontro tra il Papa e il Dalai Lama. Se questo avvenisse, di che cosa secondo lei dovrebbero parlare?
Parlerebbero di quello di cui parlano sempre, di quello che è il loro interesse principale, cioè come aiutare gli abitanti di questo pianeta. Come fare a rendere questo pianeta, e noi che lo popoliamo, più saggio, più compassionevole, più gentile e meno violento. Questo probabilmente si direbbero e si interrogherebbero su cosa dobbiamo fare per mettere fine a questa follia dilagante che si sta impossessando di questo nostro mondo. Forse cercherebbero la maniera di insegnare un po’ di sanità mentale alla gente che popola questo universo. Sono due persone assolutamente straordinarie e a me viene naturale pensare ad un loro incontro. Pur avendo una cultura totalmente diversa e rappresentando popolazioni differenti, secondo me sono due persone che insieme potrebbero veramente fare tantissimo proprio perché potrebbero rivolgersi al mondo intero. L’incontro di queste due religioni così diverse potrebbe veramente servire a fare del bene.
Una domanda più terrena: quali storie cerca in questo momento della sua carriera?
Devo essere sincero, sin dall’inizio della mia carriera non ho mai pianificato nulla. Tutte le scelte che ho sempre fatto si sono basate sull’istinto. Come sapete tutti ho fatto delle cattive scelte, ne ho fatte altre positive, ma tutto quello che ho fatto è nato dall’istinto senza un piano pre-determinato. Mi piace essere sorpreso e in genere i film che interpreto arrivano in due maniere diverse: può trattarsi di una sceneggiatura a cui tengo particolarmente, è il caso di Time Out of Mind a cui abbiamo lavorato per dodici anni, oppure ne ne arrivano altre all’improvviso capaci di sorprendermi, di toccarmi nel profondo e di farmi innamorare. La caratteristica che deve avere qualsiasi film che mi trovo ad interpretare, anche se si tratta di una commedia romantica, è un suo contenuto di umanità oltre a rispettare le complessità della stessa natura umana.
È interessato anche all’ambito televisivo?
Ho cominciato negli anni Settanta, sono quindi più abituato all’esperienza cinematografica. Per me il film deve essere visto in sala, al buio, sul grande schermo con tanti estranei intorno a te. È un’esperienza commuovente che coinvolge tutti i sensi. È quindi una cosa al quale mi dispiacerebbe rinunciare. È assolutamente vero che la televisione americana produce opere veramente straordinarie, a volte di gran lunga migliori di quelle che vengono realizzate al cinema. Siamo in un momento di grande cambiamento, per cui film e storie incentrate su personaggi complessi purtroppo saranno sempre più legati alla diffusione in poche sale oppure ad esser prodotte solamente per la televisione. Detto questo, l’esperienza del cinema in sala per quanto mi riguarda è ancora una cosa straordinaria