“Ho fatto un film d’amore ma non sono un grande appassionato, da spettatore, di film d’amore” ci dice Valerio Mieli alla conferenza stampa di presentazione del suo Ricordi?, con Linda Caridi, premiata miglior attrice emergente alle giornate degli autori di Venezia 75, e Luca Marinelli, battezzato dalla sala come “il nuovo volto del cinema italiano” – “sicuro?” fa lui.
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A Mieli non crediamo del tutto, un po’ perché a precedere questo lavoro ce n’è un altro, Dieci Inverni, esordio celebratissimo del 2009 che, a distanza, scherzo di una complessa sorte produttiva, di altrettante stagioni, si rivela a posteriori fucina di ispirazione tematica e forme visive, e un po’ perché se i riferimenti consci del film volano altissimo al Tarkovskij de Lo specchio e di Nostalghia, le cui memorie sono vivide nel gioco poetico dei piani temporali così come nelle suggestioni delle nebbie sabine, quelli inconsci lo saldano invece virtuosamente a una tradizione pop naif che procede da Amélie Poulain attraverso il Gondry di “Eternal sunshine of the spotless mind” (“è un film bellissimo, mi dispiace per certi versi che esista…no, sono contento di averlo visto”, confessa Mieli) per arrivare al più “americano” ma non difforme dal punto di vista compositivo “(500) Days of Summer” di Marc Webb.
Caridi è Lei, Marinelli è Lui, i nomi sussurrati all’orecchio l’una dell’altro in una prima notte che è già sdoppiata tra il ricordo grigio di lui, pessimista incallito, cronicamente risospinto nel passato, e quello flou di lei, trapiantata a una festa terrena da un mondo di fiaba, addirittura immemore di brutti ricordi.
E’ un sussurro che innesca un flusso incontrastabile di identità in una parabola universalmente nota che attiva l’attrazione tra le opposte polarità solo per scioglierla nel rovesciamento delle stesse. Non è storia nuova, né vuole esserlo, caricandosi dichiaratamente di valore archetipico.
L’originalità di Mieli, che tanta parte ha avuto nella scommessa dei produttori sul film (in sala anche uno di questi, Angelo Barbagallo), è tutta nell’ambiziosa costruzione narrativa, impensabile senza il lavoro di montaggio certosino operato da Desideria Rayner. “E’ stato un processo infinito, in ogni minuto ci sono circa 50 tagli e i tagli andavano fatti nel punto giusto, altrimenti non si sarebbe capito nulla, o il film sarebbe diventato didascalico”: è il regista che evidenzia la necessità di collaudare soluzioni tecniche a problemi teorici, la difficoltà di iniziale di dover capire come tradurre in linguaggio propriamente cinematografico la tendenza per lo più letteraria alla soggettività. Ricordi? non è che un’allucinazione continua che rimbalza fino al capogiro tra l’alterazione degli sguardi al passato e al futuro di Lui e di Lei, in un Tempo dell’amore che, negata la dimensione del presente, è sempre e ovunque.
Vorrei che Valerio sfatasse un pregiudizio smontando l’apparato teorico-critico secondo cui il suo sarebbe un film italiano insolito perché ha un sistema di costruzione del racconto non difficile ma complesso, articolato, con un sacco di storia. Il che si traduce: sarà palloso. A me davvero sembra sia una storia d’amore e basta, con la semplicità che questo comporta
Mieli: Devo dimostrare che non è palloso? [ride] Penso che lo scopo di questo film sia di raccontare due interiorità, non i fatti come accadono ma come li ha vissuti l’una e come li ha vissuti l’altro, e il ricordo ha il grande pregio di rendere ancora più evidente la differenza tra i due punti di vista. Più passa il tempo e più queste due visioni si divaricano. Il film racconta di due mondi mentali, non del mondo esterno. Il nostro mondo che noi consideriamo privato, quando ci si incontra, si mischia con un altro, e i due mondi si influenzano: come in una lavatrice, l’uno scolora sull’altro. Il personaggio di Linda diventa allora più tormentato e quello di Luca più leggero. Non so se ho fatto quello che mi chiedevi, in realtà forse avrei dovuto dire esattamente il contrario, ma è questo che a me interessa delle storie d’amore.
Ai due attori: che cosa è stato per voi dire “io sono Lui”, “io sono Lei”? E’ la cosa più difficile del mondo, o forse la più facile se allora uno ci mette del suo. Se ti dicono “devi fare Napoleone” sai, se ti dicono “devi essere Lui/Lei” sei nessuno, sei te stesso, sei un altro completamente diverso da te?
Caridi: Per certi versi è stato molto semplice, si trattava di entrare in tante piccole situazioni date del quotidiano. In qualche maniera, essendo stata innamorata, avendo vissuto delle delusioni, quindi avuto delle ferite, avendo avuto stupore per la vita, e avendolo ancora, non era difficilissimo recuperare queste cose in un tipo di scrittura molto aperta ma codificata come quella di Valerio. Abbiamo improvvisato molto andando addirittura ad asciugare la sceneggiatura. La cosa complessa era fare il sunto di un archetipo, di un Lui o di una Lei che percorre un arco temporale lungo: è stato come unire tanti piccoli pezzetti, poi è venuta fuori una collana e io non me ne ero neanche resa conto.
Marinelli: La sceneggiatura era molto ricca. Difficile per noi è stato all’inizio trovare la maniera di creare quest’arco, questa mappatura dei ricordi fondamentale per tutti e tre. Per me è stata la prima volta di non capire in che punto eravamo, se nel presente o nel passato, era difficile orientarsi tra il ricordo di lei e il ricordo di lui. Di questa storia d’amore, sin dal momento in cui per la volta ho letto la sceneggiatura, mi ha attirato la struttura a mio avviso geniale, bellissima, che aveva al di sopra. Per la prima volta mi sono messo a ragionare su come ricordiamo, su come ricordiamo i ricordi.
Caro Marinelli, lei è sfuggito in parte alla mia domanda.
Marinelli: Completamente credo.
Dovendo interpretare un personaggio senza nome, uno se lo costruisce da solo? Quali sono i perimetri? Dove stanno i punti di riferimento?
Marinelli: Fare un film è entrare dentro un clima che ti condiziona, anche nelle cose delle quali magari non si parla. C’è la guida del regista, di quello che ha scritto, ci sono le intuizioni di noi attori. Ci si condiziona a vicenda e si va da qualche parte, ma è un processo che non riesco sinceramente a spiegare. Poi, finito di girare, si esce di botto da Napoleone, e arrivederci.
La cosa bella è che finalmente hai un personaggio che si solarizza, si apre, è meno costretto a quell’interpretazione sofferta che spesso caratterizza Marinelli.
Marinelli: Posso rispondere “si”? Si.
C’è un filo rosso che lega Dieci Inverni a questo film, ma c’è anche un riferimento non so quanto conscio a una famosa serie tv, The Affair, in cui i protagonisti ricordano in maniera diversa quello che hanno vissuto.
Mieli: Da Dieci Inverni a questo film è passato molto tempo. Mi ricordo quando mi dissero che stavano scrivendo questa serie mentre il film era già in cantiere, quindi io mi spaventai anche un po’. Non c’è stato un influsso e devo dire che ne ho viste solo due o tre puntate.
Per quanto riguarda Dieci Inverni, la sua storia credo fosse un po’ l’opposto di questa, in cui le due persone si incontrano, subito si influenzano, e diventano quello che sono grazie a questo incontro, che è quello che succede nella vita di tutti noi. In Dieci Inverni, invece, i personaggi procedevano indipendentemente l’uno all’altro provando di anno in anno a vedere se potessero incastrarsi, era il flusso della vita a levigarli in modo tale da arrivare all’incastro. Lì la storia è raccontata da un punto di vista totalmente oggettivo, mentre in Ricordi? è tutto solo soggettivo, non c’è un piano della realtà, una cornice esterna. E’ quello che succede nella nostra vita, non possiamo uscirne per vederla da fuori, al massimo possiamo cercare di immaginare come la vedono gli altri.
E’ un’osservazione corretta dire che Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes ti ha influenzato? Nel film si procede per tappe, appunto per frammenti.
Mieli: Corretta non lo so, io l’ho letto tantissimo tempo fa. Me l’aveva regalato una ragazza e mi ero forse più concentrato sul fatto che questo regalo potesse significare qualcosa [ride], più che sul libro. Non è un modello a cui ho pensato però è anche plausibile che direttamente o indirettamente, Barthes è filtrato molto in tante cose, sia entrato nel film.
Al di là della linea narrativa comune a tante storie d’amore, da dove viene il soggetto? Come è nata la spinta del film?
Mieli: L’idea per me è stata quella di cercare prima riferimenti letterari più che cinematografici, perché mi sembra che il fatto di trattare le storie dal di dentro invece che dal di fuori sia una cosa che la letteratura ha fatto moltissimo, il cinema meno, perché si presta meno. Non certo per primo o per la prima volta, ho provato a portare più soggettività al cinema, e avere due punti di vista permette di rendere chiara le soggettività. Gondry è sicuramente, tra tutti quelli che abbiamo detto, un riferimento.
A Linda Caridi, che è uscita da Venezia con un riconoscimento speciale: alla luce del suo trascorso (Lea, film per la tv del 2015, ndr) com’è lavorare con due registi così diversi come Marco Tullio Giordana e Valerio Mieli?
Caridi: Con Marco Tullio Giordana, anche solo per la differenza di età, c’era quasi una sorta di timore reverenziale, timore che con Valerio è stato sfrondato, complice anche Luca. Direi che ci sono due direttive principali del modo in cui agisce il loro lavoro: Marco Tullio Giordana non provava, faceva accadere direttamente le cose sul set, la sua direzione era un provocare delle reazioni, mentre con Valerio c’è stato un processo quasi inverso perché abbiamo avuto una settimana di prove che ci ha risolto la possibilità di avere un’arcata cronologica della storia che si sarebbe scomposta poi in fase di ripresa e di montaggio. Valerio ti mette le mani dentro la testa, dentro all’emotività, e lo fa in maniera stratificata. Questa è a tutti gli effetti una storia d’amore a tre dove è sempre presente una guida che ti riorienta. Mentre Marco Tullio Giordana faceva accadere le cose, girare con Valerio è un depositarsi di più strati che si sedimentano e portano a un risultato a lungo termine.
Per Mieli: il processo di montaggio, che è la differenza rispetto ai riferimenti che abbiamo citato, tra i quali possiamo includere anche La scomparsa di Eleanor Rigby, come si è svolto?
Mieli: Il lavoro con Desideria Rayner è stato lungo e impegnativo, il risultato è molto vicino al copione. La grande difficoltà stava prima nell’immaginare, poi nel vedere, attraverso delle prove anche di montaggio, se certe soluzioni potessero funzionare o meno. E’ stato persino necessario fare delle proiezioni di fronte a persone che non ne sapevano nulla per capire se il risultato fosse chiaro.
A Marinelli: come è arrivato alla costruzione dell’evoluzione del suo personaggio, da un’ombrosità molto marcata all’inizio a una solarità che colpisce?
Marinelli: Tutto era scritto, sembra complicato ma in quel momento non lo era, abbiamo trovato il nostro sistema. L’evoluzione del personaggio era scritta, e io l’ho seguita. I momenti di prova, come si fanno a teatro, sono stati fondamentali. Abbiamo percorso tutto il film, anche nelle parti in cui i nostri personaggi erano piccoli, e che non saremmo stati poi effettivamente noi a recitare. Tutto questo ha gettato delle basi, ci ha permesso di sapere di cosa stessimo parlando e poi di creare qualcosa in più direttamente in scena.
Barbagallo, questo film è abbastanza interessante nella sua struttura produttiva. Presentato da Bibi Film e Les Films d’Ici, cerca e trova un panorama internazionale, con Rai Cinema, cosa non certo anomala nel panorama dei film d’autore italiani di oggi, ma anche in collaborazione con Cattleya, distribuito Bim. E’ un bel lavoro di composizione volto a costruire un progetto che possa viaggiare bene. Ce lo racconti da questo punto di vista?
Barbagallo: Io sono entrato in questo progetto quando aveva già cominciato a camminare, ci stava lavorando Cattleya, poi sono entrato io, è entrata Rai. Si è creato un insieme che ha fatto si che il film avesse alla fine un budget di circa 4 milioni di euro, che è un budget alto per un tipo di film come questo. Abbiamo tutti quanti fatto una scommessa sull’originalità, su Valerio, che aveva lasciato un buon sapore in bocca con Dieci Inverni. Abbiamo provato a fare qualcosa che non parte come un film per tutti ma che, uscendo dagli schemi, può arrivare a un mercato internazionale. Abbiamo lasciato Valerio molto libero di sperimentare, gli abbiamo concesso tutto il tempo di cui aveva bisogno. Il film è stato girato in due blocchi, preceduto da molta preparazione e seguito da una lunga fase di post-produzione. E’ un progetto totalmente atipico: un film che poteva essere cerebrale, cervellotico, complicato, si rivela veramente un film per tutti. Guardando il film ci entri dentro, sei colto da un flusso che non ti fa più cogliere la struttura che c’è dietro, o meglio, non ti fa chiedere quale struttura ci sia, semplicemente partecipi a qualcosa di molto potente.
Mieli: anch’io sono sorpreso che il film piaccia in maniera così trasversale, arriveremo presto in Argentina, in Brasile, ora in Francia.
Si è parlato del tempo produttivo, e il film è inevitabilmente un film sul tempo dell’amore, insondabile, che viene, va e torna. Anche la colonna sonora ha un suo tempo nel flusso delle note e si è scelto di inserire brani non originali: è una scelta coeva alla sceneggiatura? Anche questa è una scelta abbastanza originale nella sua struttura e nel suo impatto emotivo.
Mieli: In larga parte i brani stavano in sceneggiatura. Avevo in testa un organico di strumenti molto adatti alla memoria, come il clarinetto, e in generale il film è un film da camera. La struttura del film da questo punto di vista è quella del tema con variazioni.
Si nota nel film la quasi assenza dei telefonini nella relazione tra i due protagonisti. E’ una scelta dovuta alle coordinate cronologiche della storia oppure rivela un intento suo più preciso?
Mieli: Dei telefoni ci sono, ma potremmo anche dire allora che da un certo punto di vista il film è un film senza macchine. Ci sono ragioni legati agli anni in cui si sviluppa la storia, mentre i telefonini non avevano ancora il ruolo che hanno oggi, ma c’è anche da dire che in certa parte quello rappresentato è un mondo utopistico.
Più vicino all’utopia che al sogno, forse per questo coraggioso ma emozionalmente tiepido.