In quel Cinema dei Piccoli di Villa Borghese a Roma, fra largo Marcello Mastroianni e viale Alberto Sordi che, dice Pif, è il cinema più piccolo del mondo, Ettore Scola arriva sulla piccola Smart guidata dalla moglie.
L’aspettano Pif, che farà con lui una lunga chiacchierata molto informale, e le figlie, Silvia e Paola, dietro la macchina da presa. Scola è l’uomo sereno e ironico di sempre, la fatica degli anni c’è ma come accettata con divertita tranquillità, mentre si fa riprendere per un amarcord affidato un po’ al suo cinema e un po’ alla sua presenza dal vivo di grande vecchio che gioca con il giovane prendendolo un po’ in giro. Sornione, Scola scherza sul “lei” che Pif usa nel parlargli, Pif vuol chiamarlo Maestro, ma Scola accetta solo se, dice ,“ sei un buon alunno”, e così, tra il serio e il faceto, scorre la vita di un uomo che ha saputo leggere il suo tempo e trasformarlo in oggetto d’arte con il cinema.
Silvia e Paola optano per un montaggio non cronologico, da figlie che lo conoscevano bene scelgono quello che meglio racconta l’uomo e il regista, sintetizzando in un’unica persona ciò che lui effettivamente era. E allora a volte compare il giovane Scola bruno e corpulento, altre volte la chioma è tutta bianca e poi torna nera. Non mancano foto dell’infanzia, vestito da figlio della lupa vicino al fratello già Balilla e a mamma e papà fieri e sorridenti. Scorci di vita da nonno col nipotino batuffolone in braccio che fa muovere la lampada e lui che ride: “Ehi, ehi, mi fai un effetto Siodmak!” convivono con l’immancabile torta di compleanno con candeline dei Super8 chiusi fra i cimeli di ogni famiglia che si rispetti.
La figura che ricorda con più affetto è la madre, una donna che amava trovare il lato comico della vita ed è da lei che ha preso il gusto della risata.
E’ un ritratto a tutto tondo, pubblico e privato, dove il pubblico sono i momenti più significativi dei suoi film, qualche backstage, brani da interviste e partecipazioni a eventi vari, televisivi e non.
Tra una proiezione e l’altra si torna in sala e con Pif la divertente carrellata tra passato e presente mette in gioco entrambi come personaggi di un film nel film. Ridendo e scherzando. Ritratto di un regista all’italiana, nelle sale per due giorni, è molto più di un documentario, è il regalo che le figlie fanno al suo pubblico a pochi giorni dalla morte del padre, in un luogo vicino a quella Casa del Cinema dove gli hanno dato l’ultimo saluto. E’ un modo per farcelo sentire ancora vivo, testimone garbato e acuto del suo tempo, sguardo alieno da compiacimenti e moralismi, appassionato ma col necessario distacco, quello dell’intelligenza che sa dare la giusta misura alle cose.
Ripercorrere i film di Scola e sentire le sue parole è costringersi a ripensare mezzo secolo della storia di quell’Italia sporca e cialtrona che il suo cinema ha raccontato con l’impegno civile dell’uomo che, ancora pochi mesi fa, al Bif&st 2015, esortava i tanti giovani in platea dicendo: “Datevi da fare, cambiate il paese con le idee”.
Scola parla poco, e sempre con ironica leggerezza, spalleggiato dalla simpatica verve di Pif che riesce perfino a spiazzarlo chiedendogli ex abrupto, e quasi con effetto “rottura della quarta parete”, se la maglia che indossa (una bella giacca di lana cammello con grandi bottoni) è sempre la stessa che si vede nelle riprese da tanti anni.
Simpaticissimo fuori scena, in effetti in tutte le sue apparizioni(salvo lo smoking per qualche premio) Scola vestiva così. Una risatina e via, si va avanti con i ricordi, gli aneddoti, le storie di grandi amicizie che si affollano. Amici indimenticabili come Fellini e maestri, De Sica prima di ogni altro:
“Un signore bello, elegante, sussurrava delle cose in un megafono, una sorta di demiurgo fuori campo che faceva accadere cose che vedevo, che si vedevano“. A questo punto la celebre sequenza finale di Ladri di biciclette, accompagnata dalle sue parole e da frammenti di backstage, diventa un pezzo di cinema/verità di bellezza sconvolgente.
I nomi ci sono tutti, e per ognuno un ricordo, spesso divertente e colorato, a volte amaro, come per Pasolini, che avrebbe dovuto fare una video-prefazione a Brutti sporchi e cattivi.
Scorrono le baracche dell’idroscalo di Ostia mentre Scola dice: “Avevo il set a pochi metri da dove è stato ammazzato, era l’ultima settimana di riprese ma lo ammazzarono e il film uscì senza prefazione”.
Non c’è bisogno di dire altro, il dono di Scola è sempre stata la sua capacità di far convergere un mondo di idee e sentimenti in pochissime parole.
Che ora è? Chiede Troisi figlio a Mastroianni padre seduti di fronte, nel vagone ferroviario, alla fine del film che ha proprio quel titolo. Tre parole brevissime che chiudono il cerchio dicendo tutto.
Non manca lo Scola del Marc’Aurelio fra i ricordi, e come potevano mancare i suoi disegni, quella mano agile, capace di illustrare con pochi tratti di matita un racconto intero?
Ironizza, Scola, sui suoi inizi, quando faceva il “negro”, il ruolo di chi non compare e lavora più di tutti. “Ma mi rendeva, ero ricco, poi scelsi di esser povero e passai alla regia”.
Il film arriva alla fine preceduto dal regista stesso che si alza prima che il copione sia esaurito. Brillante sketch in cui si sente una voce fuori scena: “Papà dove vai?”, mentre Pif non sa più che pesci prendere. Piccola gag fra i due, quindi escono dal Cinema dei Piccoli, ridendo e scherzando, pronti per altre gag e tanta vita, ancora.
Presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma 2015, al film andrà un Nastro d’argento speciale dell’SNGCI, il Sindacato nazionale giornalisti cinematografici, in apertura della serata del 25 febbraio alla Casa del Cinema, quando saranno consegnati i premi ai migliori documentari dell’anno.