giovedì, Dicembre 26, 2024

Rio das mortes – Il viaggio a Niklashauser / Di Rainer Werner Fassbinder (Raro Video DVD – 2008)

Ma intanto, se non posso aderire a tutto ciò che ha detto un uomo, del resto indiscutibilmente assai colto e insieme esperto delle cose umane, non ho difficoltà a riconoscere che molte cose si trovano nella repubblica di Utopia, che desidererei pei nostri Stati, ma ho poca speranza di vederle attuate (( Tommaso Moro, Utopia ))

Accostamento anomalo, almeno in apparenza, quello che viene proposto da Raro Video con due film come “Rio das Mortes” e “Il viaggio a Niklashauser” nell’ultimo cofanetto dedicato al regista tedesco Rainer Werner Fassbinder. Anomalia tematica e formale valutata all’interno del corpus della produzione fassbinderiana che si palesa nel primo caso nell’assenza di un vero e proprio dramma, e anzi propone curiosamente qualche situazione velata di uno strano humor; mentre nel secondo caso Fassbinder analizza il rapporto tra messa in scena e rivoluzione, o meglio l’utopia della rivoluzione, generando un prodotto volutamente didascalico, alla maniera del Godard di Weekend, di Vento dell’est o de La cinese. E’ attorno a questo concetto, e partendo proprio dal neologismo coniato da Tommaso Moro in Utopia (dal greco ou tòpos, non luogo) che si riesce però a trovare il trait d’union dei due film. Entrambi risalgono al 1970, anno in cui Fassbinder realizzerà altri cinque lavori, alternando prodotti televisivi e cinematografici, senza peraltro porsi problemi riguardo alle diversità (estetica e di fruizione) tra un mezzo e l’altro. In “Rio das Mortes” l’utopia è il sogno di un viaggio in Perù, alla ricerca di un tesoro, che due amici, Gunther e Michael, si ostinano a portare avanti, ostacolati da Hanna, ragazza e convivente di Michael, che al contrario, sogna un matrimonio e dei figli, desiderio perfetto di una donna borghese. Fassbinder ricrea, come più e più volte in seguito, un rapporto triangolare e se ne serve per inserire le tematiche che nei suoi melodrammi assumeranno una dimensione esistenziale e paradigmatica, costruisce anzi più di un triangolo amoroso, seppur breve, nella scena all’interno del bar dove i due amici cercano il modo di finanziare il loro viaggio e Fassbinder balla con quella che è già la sua musa, Hanna Schygulla, ricamando un piccolo tradimento e provocando la gelosia nella donna che l’attende al bancone del bar.

Il tradimento e la gelosia appaiono in “Rio das Mortes” come in nuce, figure ancora abbozzate, che creano talvolta goffi risultati umoristici da parte di Hanna, che tenta di impedire il viaggio dei due, coppia velatamente omosessuale, fino al climax finale: giunta all’aeroporto la donna cercherà di sparare ai due uomini, ma una volta estratta la pistola la traiettoria del tiro sarà ostacolata, e Hanna, eroina noir imperfetta, abbandonando il suo proposito omicida, sostituirà repentinamente la pistola con un rossetto, azzeccando questa volta la mira sulle proprie labbra, a sottolineare la consapevolezza della propria femminilità.

Un gesto questo che non si esaurisce ma crea un ponte ideale con “A bout de souffle”, con la sequenza nella quale Jean Seberg ,dopo avere tradito il suo uomo, evidenzia il contorno della sua bocca con un dito, gesto divenuto esemplare, apologia del tradimento, conquista di un nuovo modo di vivere. E’ un ribaltamento totale in cui Hanna è la donna tradita, oppressa perchè è il suo stesso comportamento a renderla oggetto di oppressione, il suo sogno, la sua utopia, di una vita inquadrata nell’ottica borghese, frammentato nel non luogo di migliaia di schermi nella piccola catarsi televisiva, andato in onda il 15 febbraio del 1970 per il primo canale della televisione tedesca.

Il viaggio a Niklashauser” porta già in sé nel titolo il concetto di utopia, viaggio per raggiungere un luogo ideale, che nel suo divenire è in se stesso un non luogo, ma anche viaggio nelle regole della rivoluzione e in particolare nella messa in scena della rivoluzione. La mdp slitta su un piano orizzontale e gli attori, i rivoluzionari, misurano lo spazio declamando i loro principi; uno di questi è l’accettazione dell’uso di effetti teatrali per realizzare più efficacemente la propria causa. Il film è ispirato alla rivolta di Hans Bohm, un contadino che, dopo essere stato visitato dalla Madonna, intraprende una battaglia contro lo status quo, dando il via ad un moto rivoluzionario e finendo poi bruciato sul rogo come eretico. Fassbinder prende lo spunto da questa vicenda ma contamina da subito le epoche, generando un senso fortissimo di straniamento. Tutto nel film è straniante: dagli abiti, alle ambientazioni, ai dialoghi; il gioco del reale e del fittizio sembra confondere gli stessi attori fino a convincere Michael Koning-Hans Bohm, il predicatore, di avere davvero visto la Madonna, senonché la Schygulla gli rammenterà che è lei stessa la madonna (ovvero il personaggio da lei interpretato). Fassbinder è “monaco nero” (ma anche la Pantera Nera, chiaro

riferimento al movimento statunitense delle Black Panthers, che sarà poi esplicitato dalla lettura di un articolo di giornale), ma sarà anche il “regista”, colui che impartisce le indicazioni di regia alla sua Madonna- Schygulla per ottenere un maggiore impatto sul popolo da convertire alla rivoluzione, e visto che anche in questo caso si tratta di un film realizzato per la televisione tedesca, la sovrapposizione tra il popolo e lo spettatore televisivo risulta lampante. Ai margini del bosco i rivoluzionari declamano i loro slogan, urlano le ingiustizie della società capitalistica, fino al canto di “Bandiera Rossa”. Era il 1970, piena Guerra fredda e per la Germania Ovest il Comunismo era non solo uno spettro, ma un’ipotesi che faceva paura. Solo sette anni più tardi, Fassbinder racconterà la società tedesca di quegli anni nell’episodio di “Germania in autunno”, mostrando al pubblico sia il cambiamento della società sia le proprie convinzioni a proposito: conati di vomito generati dal pantano della falsa democrazia occidentale. In quegli anni Mamma Kuster era già volata in cielo, tradita nel suo dolore da chiunque avesse avuto a che fare con la politica e un anno dopo, nel 1979, i terroristi pagliacci di terza generazione proponevano i loro giochi che non avevano più ideologia né lotta politica.

“Ogni cristo ha il dovere di essere un rivoluzionario, ogni rivoluzionario ha il dovere di fare la rivoluzione” grida uno dei protagonisti. Verrebbe da aggiungere che ogni cristo deve essere giovane, semplicemente valutando l’anagrafica degli attori e dei protagonisti, tutti giovanissimi, primo tra tutti Fassbinder che nel 1970 aveva 25 anni e che l’unico “anziano” presente nel film è il vecchio marito borghese di Margarethe, paralizzato e privo di parola. Dopo il potentissimo piano sequenza finale sulla battaglia rivoluzionaria (quasi una prova generale per successivi, elaborati movimenti di macchina) una voce off afferma: “lui e i suoi compagni avevano imparato dai loro errori, andarono in montagna e dopo due anni la rivoluzione vinse”. Eppure il lento carrello che segue i protagonisti nel campo di grano (sullo sfondo tracce di urbanizzazione), la musica mesta, negano questa vittoria e sembra piuttosto riecheggiare la frase di Pasolini: “la rivoluzione non è più che un sentimento” . Almeno fino a quando non cambierà il cuore degli uomini, vera utopia, vero non luogo, fino a quando, come suggerisce l’immigrato (quindi) emarginato nel prefinale, l’uomo e di conseguenza la società non avrà più bisogno di generare un rapporto tra oppresso e oppressore.

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