Tutto inizia all’alba, il mare agitato e tre giovani surfisti.
Qualche ora dopo, sulla strada verso casa, avviene l’incidente.
Ormai attaccata alle macchine di un ospedale di Le Havre, la vita di Simon è solo un’illusione.
Nel frattempo a Parigi, una donna aspetta il trapianto provvidenziale che potrà salvarle la vita.
L’alba e il prologo sono due entità che nel film della Quilleveré combaciano e lo fanno assomigliare inizialmente ad uno di Larry Clark per il suo senso di fresco oltraggio giovanile, perso com’è nel vortice delle onde cavalcate dalle tavole da surf di Simon (Gabin Verdet) e dei suoi amici, o tra le curve dolci ma decise dei loro skateboard sull’asfalto. Ma è una spensieratezza che non prevederebbe di certo l’ingresso improvviso del dramma nella narrazione.
Reparer les vivants affonda con la sua lama da bisturi nella nostra coscienza etica e la sconvolge invitandoci a ripensare tutto ciò in cui credevamo dall’inizio, per poi riattivare i tessuti della nostra vitalità ormai spenta.
Tutto ciò dipingendo con amore i tratti di tutti i personaggi e sgomberando il campo da qualsiasi velleità morale, avvicinando la storia all’umanità delle lacrime e dell’angoscia di Marianne (Emmanuelle Seigner), la madre che per prima apprende con sconforto della morte del figlio.
Un percorso in divenire che ci porta letteralmente verso l’esplorazione dell’interiorità “Abbiamo il nostro corpo, ma nessuno di noi sa come é fatto al suo interno; persino uno specialista, che conosce quello degli altri, non sa del proprio. Nessuno conosce veramente il cuore, una parola piena di significati, la nostra ‘scatola nera’, l’archivio di tutto ciò che accade nella nostra vita”.
Perciò i momenti più “fisici” e “chirurgici” corrispondono a quelli più intensi e forse più faticosi da digerire per la nostra vista già poco abituata a scavarsi dentro in senso metaforico, tanto più se in senso letterale siamo portati a guardare l’operazione a cuore aperto di Simon, ormai in procinto di attraversare la soglia che divide la vita dalla morte.
Dal momento in cui Simon varca le soglie dell’ospedale di Le Havre come corpo in assopimento patologico, la drammaticità del gesto diviene il punto centrale, nel romanzo di Malys de Kerangal come nell’adattamento della Quilleveré, uno sdoppiamento dell’opera che la interessa sia a livello interpretativo che narrativo: Simon e Claire (Anne Dorval) sono, fino ad un certo punto, corpi estranei, per poi divenire un unicum, accomunati da un organo, il cuore, simbolo del centro della vita che acquista un senso e un’energia tutta nuova, proprio quando si pensava che questa volgesse al termine.
Di natura doppia è anche l’approccio registico, oscillante cioè tra lo sperimentalismo spinto (la giustapposizione tra l’asfalto percorso dall’auto con Simon e i suoi amici all’alba e le onde del mare che hanno appena cavalcato), seguito da un repentino mutamento di registro, molto più “severo”, con un realismo che sfocia quasi nel documentario.
Un’unione, quella delle anime e dei corpi di Simon e Claire, che è favorita da un impianto di segni e connessioni i quali ricordano molto la scissione operata da Kieslowski ne “La Doppia Vita di Veronica”, dove le duplici esistenze si incontrano/scontrano nel nome del Caso, atto di “fede” che determina il destino per cui vale la pena esporsi senza computare secondo una logica moralistica; una via che porta al riconoscimento e all’accettazione di quei segni che ci circondano i quali ci inviano messaggi ben precisi dall’ignoto, compensatore delle miserie del mondo conosciuto.