Il cinema orrorifico, continua ad inseguire la possibilità di rappresentare la lotta col male trascendente, nell’infelice convinzione di poter riproporre ad oltranza e con successo il canone friedkiniano, magari gonfiandolo a dismisura con dosi massicce di effetti speciali all’avanguardia, arrivando dalla citazione diretta sino al prequel apocrifo (La Genesi, Dominion) e sbagliando, ora più ora meno, clamorosamente. Il film di Bornedal non fa eccezione, tentando di rimescolare i segni del genere esorcistico, con l’introduzione dell’inedita mistica ebraica, ma riportandoli, poi, in una trama dagli sviluppi ben risaputi e, ciò che è peggio, non riuscendo ad allontanarsi dai clichè dell’horror mainstream. Il ché vuol dire: impetuosità, concitazione ed azzeramento di ogni tensione emotiva, anche in quei momenti, che sulla carta, dovrebbero essere i più forti.
Doppo l’attacco frontale dell’incipit, il film procede lentamente. I personaggi ed i loro rapporti, vengono svelati attraverso un racconto in minore alla cui resa molto si deve al lavoro degli attori, in particolar modo Jeffrey Dean Morgan (più a suo agio però ne Le Paludi Della Morte di Canaan Mann) e le due bravissime ragazzine protagoniste, Natasha Calis e, soprattutto, Madison Davenport, appena adolescenti ma con una carriera già ampiamente avviata. La lunga introduzione monta però un’aspettativa che viene puntualmente tradita nel momento in cui il maligno ritorna in scena. Bornedal, e con lui i due sceneggiatori Juliet Snowden e Stiles White (già con Proyas in Knowing), è disinteressato alla paura vera e propria; preferisce indagare i fattori umani; seguire gli stravolgimenti interni alle dinamiche familiari, già minate da un divorzio, conseguenti al fenomeno della possessione, al pari di quanto farebbe una qualunque altra malattia. In tal senso, The Possession, sembrerebbe quasi una metafora, anche un po’ moralista, sul dissesto della famiglia media americana e per estensione dell’America tutta (il male che s’insinua tra le pieghe della disgregazione e fugge alla ritrovata unità). Ma sarebbe una lettura forzata.
Dietro gli effetti, già non eccitantissimi, si nasconde, insomma, un dramma domestico. Dramma che occupa, alla fine, buona parte della pellicola. Il ché non sarebbe di per se un difetto, anzi tutt’altro, considerando che il cinema esorcistico vede nelle crisi dei nuclei affettivi uno di propri pilastri, laddove non fosse risolto in melodramma da soap e l’elemento terrifico si rivelasse davvero tale.
The Possession spreca anche l’arma più forte a sua disposizione, cioè la suddetta coloritura ebraica, la presenza del demone chiamato Dibbuk. Questi, secondo tradizione, s’impossesserebbe del corpo di un malcapitato privandolo di ogni suo avere, sino a sostituirsi completamente a lui (la stessa leggenda che i fratelli Cohenhanno sfruttato come traccia su cui sviluppare il loro A Serious Man, che altro non sarebbe se non una rilettura metaforica della leggenda stessa, ottenendo risultati di ben altro spessore). Incuriosisce la presenza, nel ruolo del giovane aspirante rabbino, del rapper ebreo ortodosso Matisyahu, molto popolare in patria, che dovrebbe servire a rinfrescare la figura del religioso, risultando anche piuttosto credibile.
Alla fine, però, tra kippot, tallitot e saggezza rabbinica, tutto si risolve in risapute ovvietà che lasciano ben poco alla sorpresa dello spettatore. Lo stesso rituale, che è retorico considerare fulcro narrativo di tutto il cinema demoniaco (e che ondeggiando sempre tra credibile e ridicolo è anche difficilissima prova d’abilità registica), malgrado offra l’affascinante variante talmudica, quindi com’è ovvio senza ritrite formule in latino e crocifissi sguainati, viene svilito da una prolissità assolutamente non necessaria e da una ridondanza davvero fuori luogo. Tutto senza riuscire mai realmente a ferire, scuotere, turbare.
Malgrado lo sguardo di Bornedal sia tutt’altro che banale e si prenda più di una libertà. La capacità di sfruttare il buio, i neri, che sono da sempre una caratteristica del regista danese fin dai tempi dell’originale Il Guardiano di Notte, è qui esposta come meglio non potrebbe, soprattutto nella sequenza della fuga di Emy, in cui, in un campo lunghissimo, il cielo notturno diviene talmente materico da sembrare incombere fisicamente sui personaggi. Il regista non rinnega le sue origini europee e qua e là ricerca soluzioni visive da horror iberico; vira la fotografia sui toni di un bruno molto cupo ed elegante e piazza Fulci dove meno lo si attende (o è solo eterogenesi dei fini?). Purtroppo, anche sul piano visivo, il resto è convenzione, con tanto di citazioni da Poltergeist (antesignano di tutto l’horror per famiglie, categoria alla quale pure questo film appartiene di diritto) e The Ring (perché all’icona Samara non si sfugge). E a poco serve il montaggio brusco che alterna crescendo roboanti ad improvvisi silenzi; anzi dopo un paio di volte diventa stucchevole se non addirittura fastidioso. Tutto contribuisce a fare di The Possession un prodotto medio, gradevole anche ma senza nerbo, che si dimentica un attimo dopo la visione.