Gioia è arrivata all’appuntamento con qualche minuto di ritardo e l’allegra brigata ne ha approfittato per scappar via. Lei si è fatta bionda per l’occasione, ha tirato fuori un vestito scollato e sbracciato carico di lustrini e un boa di pelliccia che è una poesia guardarla, e mentre se ne sta seduta sul bordo del fontanone di Piazza Esedra (allora Piazza della Repubblica si chiamava così) ad aspettare gente che non arriverà mai, si trasforma in una figura felliniana.
Del resto, di Fellini c’è tanto in questa notte di Capodanno 1960, e non poteva che essere così. Siamo in una Roma che detta lei la regia a tutti, da Via Veneto all’Eur, dai palazzi della nobiltà papalina a Cinecittà, fino a Fontana di Trevi, passando pure davanti a Regina Coeli, decide dove sistemare il set, apre i palazzi della ricca borghesia colta, magari pure tedesca (ma quella “che non ha fatto la guerra”) sbircia dentro squallide bicocche, mette in scena tutta quella fauna umana che, allora sì, fu la grande bellezza nelle mani di chi seppe raccontarla.
La chiave inconfondibilmente monicelliana è però in quelle punte esilaranti che buttano il dramma nel comico, un comico amaro e un po’ surreale, come la scena a Fontana di Trevi, con l’americano ubriaco (Fred Clark) che vuol fare il bagno a tutti i costi a imitazione di Anitona e Totò che urla, mentre arriva la polizia: “Mannaggia ar cinema!”.
O l’arrivo di Gioia all’Eur, intirizzita e coperta di giornali per tamponare la scollatura, su una moto che le ha dato un passaggio, in una gag irresistibile nelle mani della nostra più grande attrice, quella Gioia che vive dentro un sogno, che vuol continuare a credere a tutto, che deve sopravvivere al naufragio di tutto.
E ancora, il siparietto che la Magnani e Totò improvvisano quando cantano in duetto “Geppina Geppì” al Gran Galà, una delle tappe del loro sconclusionato girovagare notturno.
Forse, se non prevalesse la cifra neo-realistica, i due protagonisti di questo film farebbero pensare alle figurine di Chagall, in volo sulla città mentre suona un violinista pazzo.
Totò, presenza forte nel cinema di Monicelli, qui in una delle sue performance più belle, è Umberto Vernazzi detto Infortunio, ladruncolo, attore di infima serie, amico devoto di Gioia che lo maltratta ma che non lo lascerà mai. Se ne vanno insieme, lungo quel chapliniano cammino della speranza che li porta qua e là, in una Roma notturna immemore, caciarona, che butta piatti giù dai balconi come se così si potesse esorcizzare il male.
A loro si unirà, per uno di quegli strani intrallazzi che il caso a volte combina, Lello (Ben Gazzara), impermeabile alla Bogart e sguardo cinico da Borsalino de noantri, un maudit all’amatriciana con accento spiccatamente siciliano che, nella confusione della festa, cerca di mettere a segno qualche furtarello. Infortunio deve fargli da spalla, ma i gran pasticci che invece gli combina sono l’asse portante del film intorno al quale gira la ruota della fortuna. Lello sembra spuntato dal set del Bidone o de I soliti ignoti, cinico per necessità, ladro per non morire di fame come il padre. E’ il terzo fallito della compagnia, precario della vita come gli altri due, aggrappati all’illusione di essere qualcos’altro da quello che sono e saranno sempre. Arriveranno tutti e tre all’alba nello sfacelo generale, delle loro piccole speranze e delle strade della città, livida nella luce dell’alba, seminata di rifiuti dei festeggiamenti, mentre gli spazzini cominciano il loro giro.
La Magnani plasma dal nulla una delle sue innumerevoli magie cinematografiche e trascina con sé tutti, pubblico e attori, fino alla fine, fino all’ultima scena su quel Lungotevere assolato e deserto di Ferragosto, mesi dopo la notte brava che le è costata anche qualche mese a Regina Coeli. Con il povero Umberto cammina, sfrontata ed energica, vestita ancora dei lustrini di Capodanno. L’uomo le trotterella al fianco, mentre cerca di aprire l’ombrello che ha vinto alla lotteria e ha portato per regalarglielo, all’uscita dal carcere.
In fondo, anche a Ferragosto un ombrello può servire, ripara dal sole, mentre la pelliccia, ormai tarlata, è fatta volare giù nel Tevere.
“Ce ne famo n’artra!!! ” grida Gioia/Nannarella. E vorremmo poterle credere.