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Ritorno a L’Avana di Laurent Cantet: la recensione

Prima volta senza Robin Campillo per Laurent Cantet, fedele sceneggiatore del regista francese fin dal 1999, per un progetto concepito prima de “La classe” e nato da una collaborazione con lo scrittore Leonardo Padura, di cui adatta il romanzo “The Palm Tree and the star“, concepito inizialmente come cortometraggio di pochi minuti, poi esteso ad una forma più ambiziosa e legata alla circolarità del dialogo.

Amedeo torna a Cuba dopo sedici anni di esilio vissuti in Spagna; i motivi di questo allontanamento dalla sua terra emergono poco a poco attraverso una lunga conversazione con un gruppo di amici, che occupa tutta la durata del film. Ambientato in una terrazza sul tetto dell’Havana durante una sola notte, Retour à Ithaque è la storia di un’odissea individuale e collettiva che unisce i racconti, le memorie, i ricordi di una città attraverso le parole di Amadeo insieme ad Aldo, Tania, Rafa e Eddy.

Cuba non si vede, Cantet inquadra solamente lo spazio che circonda la terrazza, con una strada sullo sfondo e le altre abitazioni addossate, quello che interessa al regista francese è materializzare un’immagine politica, sociale e culturale della città attraverso l’impronta e l’influenza del regime castrista sulla memoria e i desideri di un gruppo di individui. La supposta fuga di Amadeo e la ricerca delle motivazioni che l’hanno animata, innesca una forma di indagine dialettica radicata nei sentimenti; tutti i partecipanti, legati da sincera e antica amicizia con Amadeo, confrontano i loro desideri disattesi con quelli dell’amico, in un costante oscillare della parola tra affetto e recriminazioni, fraintendimenti e voglia di recuperare un passato mai vissuto sino in fondo . Ciò che li accomuna è un dolore sottile e profondo, nato  da quell’ansia rivoluzionaria vissuta durante la gioventù, stroncata subito dopo dalla crisi economica del cosidetto “periodo speciale”, di cui Cantet ci offre (finalmente) un’immagine endogena, lontanissima dall’oleografia romantica che confonde la nostalgia con la mancanza (e la fame) di diritti fondamentali e dolorosamente puntata sulle responsabilità del regime attraverso il contrasto flagrante tra potere e il desiderio degli individui comuni di condurre una vita accettabile e dignitosa.

Rafa (Fernando Hechevarria), pittore di promettente talento lascia la pittura, Eddy, scrittore come Amadeo, preferisce abdicare per fare il commercialista scendendo a qualche compromesso di troppo con il regime, Tania (Isabel Santos) la moglie di Rafa, donna un tempo bellissima, sembra congelata nel ricordo degli anni più creativi della sua vita e dell’amicizia con la moglie di Amadeo, morta di cancro mentre questo era in Spagna; adesso lavora come oftalmologa, e mette insieme uno stipendio appena decente con molta fatica, mentre i figli, che non si fanno più vivi, sono emigrati negli Stati Uniti, a Miami. Aldo, il padrone di casa, sembra quello che tra tutti ha accettato la sua condizione, una volta ingegnere è adesso operaio, deve confrontarsi con il figlio più giovane, unico contrasto che Cantet inserisce tra chi ha adesso cinquant’anni e le nuove generazioni, una frizione lieve ma traumatica, che con un paio di battute mette in luce due percezioni dell’economia e del sacrificio; come a raccontare che l’unico modo per scendere a patti con le restrizioni del regime, è adesso quello di un’illegalità forzata, una spinta verso l’effrazione, senza alcuna possibilità che si trasformi in coscienza rivoluzionaria.

E nel far emergere risentimento, ideali stroncati, rabbia e infine empatia, si fa strada un’immagine del regime pervasiva, sotterranea, invisibile ma sempre presente, una paranoia che colpisce i sentimenti più profondi, separa gli affetti e introduce il tarlo del sospetto. In fondo la storia dell’esilio di Amadeo è questa, con quella rivelazione così traumatica per tutti che rialloca il senso delle parole, chiarisce in un istante tutto quello che abbiamo ascoltato, raccontandoci una storia di Cuba attraverso la vita minima delle persone comuni.

Cantet raggiunge questa vicinanza attraverso un metodo che lascia accadere le cose, e che ricorda la prossimità affettiva ai personaggi de “La classe”, da cui il regista francese desume l’utilizzo circolare di due macchine da presa. A questo si aggiunge il lavoro sul linguaggio elaborato insieme a Padura in forma  diretta, “triviale”, come se fosse catturato dalle strade di Cuba, cercando di restituirne il ritmo musicale, la forza invettiva, gli improvvisi cambiamenti umorali.

La scelta del gruppo di attori, tutti Cubani, tutti attivi per lo più in produzioni televisive locali, e tutti amici tra di loro, ha consentito a Cantet di trovare quella coesione necessaria per raggiungere la verità della scrittura; tutto il lavoro documentale sulle vecchie fotografie, i ricordi, gli oggetti che testimoniano la vita in comune, ha una radice affettiva vissuta che serve al regista francese per trovare partecipata affinità tra i suoi attori. Ed è con la stesso spirito che si avvicina all’Havana, concentrando la realtà della città su una terrazza, invece di scegliere una qualsiasi flanerie attraverso le strade.

Dal tetto dove i cinque amici si ritrovano, si vede da una parte l’addossarsi delle case e dall’altra il Malecon, l’avenida Antonio Maceo che identifica il lungomare della città, un contrasto che restituisce la vita interiore di Cuba stessa; spazio duale, aperto e chiuso allo stesso tempo.

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