domenica, Dicembre 22, 2024

Rizi (Days) di Tsai Ming-Liang – Berlinale 70 – Concorso: recensione

Dopo Stray Dogs ho smesso di preparare degli script, ma non ho mai smesso di fare film. Nel giro di qualche anno ho fatto otto film basati sull’idea del camminare a passo lento sviluppata da Kang. Intanto, nella vita vera, Kang soffriva di una strana malattia. Vederlo così fragile mi ha ferito. Dato che la sua infermità è durata a lungo, a volte l’ho filmato, anche se non sapevo cosa farmene di quel materiale. Tre anni fa ho incontrato un operaio laotiano a Bangkok. Durante la videochat l’ho visto cucinare alla maniera locale in uno squallido stanzino. Ho sentito il bisogno di prendere un aereo e filmarlo. E d’improvviso ho iniziato un nuovo film”.

Dinanzi a una pellicola “volontariamente non sottotitolata” diretta da uno dei pochi autori del cinema mondiale che si può permettere il silenzio, non guasta tradurre parola per parola la sua dichiarazione contenuta nel press kit di Rizi. Sette anni fa Tsai avrebbe dovuto appendere l’obiettivo al chiodo, e invece ha intrapreso un percorso più vicino alla videoarte. La realizzazione di questo nuovo film sfiora il miracolo.

Lo compongono 46 piani, tra cui un’inquadratura che ritorna con una diversa illuminazione. La durata complessiva è di poco superiore alle due ore, ma l’esperienza è talmente immersiva che la fine arriva quasi come una sorpresa.

In conferenza stampa a Berlino Tsai ha risposto alla classica domanda sulla durata dei suoi piani sottolineando come lui voglia che il pubblico veda le sue immagini, che le guardi tutte, in ogni loro parte.

Rizi inanella questo obiettivo fin dalla prima inquadratura di Kang seduto davanti alla finestra con un bicchiere d’acqua (che resta dov’è) mentre fuori piove. La n. 29 è un quadro perfetto con finestre rotte, lampioni arrugginiti e un gatto che s’aggira nell’edificio abbandonato. Le n. 34 e 35, che registrano un incontro sessuale a pagamento spalmato su più di dieci minuti, diventano autentico cinema tattile. Il massaggio thai cui si sottopone Kang è anche nostro.

Meno birichino della Nuvoletta capricciosa (2005) e meno tragico del Fiume (1997), Rizi rappresenta una via di mezzo tra la produzione storica di Tsai e gli ultimi radicali esperimenti sulla lentezza e l’incoraggiamento all’esplorazione del quadro. E sebbene manchi la proverbiale anguria, tra i due personaggi si scambia un oggettino – che a sua volta è un richiamo cinematografico classico – impossibile da dimenticare.

Magnifici fotografia e montaggio a cura di Chang Jong-yuan, che assecondano l’occhio di Tsai sia con le classiche immagini fisse, sia quando si tratta di filmare Kang dolorante tra la folla, in primissimo piano e a velocità supersoniche per gli standard del regista.

Rizi è la dimostrazione plastica di come non vi sia nulla di rigido o ideologico nel cinema di Tsai Ming-liang. È la spontaneità a farla da padrona.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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