Il sospetto che Scott volesse bissare la struttura intrisa di epos de Il Gladiatore aleggiava fin dalla conferma di Crowe a suo insostituibile protagonista-feticcio. È in effetti innegabile che il paladino della leggenda inglese segua un percorso simile a quello di Primo Decimo Meridio: un uomo torna dalla guerra in una posizione sociale profondamente mutata (in questa versione è un villico che diventa nobile per poi farsi fuorilegge) e riesce ad usare la sua nuova condizione per riparare torti ed ingiustizie del potere. Con più evidenza, i vessilli di nobiltà (anelli, corone, spade e cavalli) ci vengono mostrati come accessori vuoti, privati di ogni senso dal valore pragmatico delle gesta di un paladino. In generale , però, la rilettura del mito dell’arciere di Nottingham passa attraverso una gamma di licenze storiche che surclassano quelle già presenti nel neo-peplum del 2001, senza conservarne la forza epica ed evocativa: prima di diventare Robin Hood, il soldato Longstride fa in tempo ad impugnare una carta dei diritti dell’uomo cinque secoli prima dei giacobini, oltre che a guidare in battaglia un drappello di nobili contro una massiccia invasione francese, novello William Wallace d’Inghilterra. Lo stridore degli ingranaggi storici è probabilmente assordante anche per i meno pignoli, ma sarebbe perdonabile se servisse a costruire una trama di azione avvincente e innegabile vigore narrativo. Le due ore e mezza di Robin Hood sono invece costellate da intrighi politici fittizi la cui seriosità viene maldestramente stemperata in poco riuscite gag picaresche. Soffocate da questo contorno, le sparute e dimenticabili scene di guerra si risolvono in uno sfoggio di comparse e in fugaci incroci di spade , ripuliti da truculenze eccessive per accontentare appieno l’apparato censoreo americano. Le trovate registiche non si sollevano oltre zoom e ralenti enfatici e risaputi, mentre si azzarda una soggettiva irreale solo nel punto esatto dove chiunque se la aspetterebbe. Allo stesso modo Crowe ricalca l’eroismo scorbutico del suo personaggio precedente, le figure di contorno sembrano essere menzionate al solo scopo di rassicurare gli spettatori nostalgici, mentre la pulzella Marion diventa un’intraprendente virago a cavallo (come pare che l’iconografia comandi, dalle elfe di Jackson in qua) che cede al fascino dell’usurpatore del suo titolo nobiliare con meccanica facilità. Difficile individuare qualcosa da salvare ed un segmento di pubblico che possa dirsi soddisfatto. Dalle oscurità malsane della fantascienza all’on-the-road femminista, dal war-movie moderno al rilancio del kolossal epico, per oltre due decenni Scott ha saputo forgiare icone e stilemi di genere rimasti impressi a fuoco nell’immaginario collettivo. Dopo due film validi seppur non memorabili, mette a segno con Robin Hood una nota stonata degna dei suoi empasse peggiori (si pensi a Legend o a Soldato Jane), in cui viene meno anche la consueta capacità di scolpire personaggi e intessere tensione narrativa. Le poche idee messe in mostra, stanche e confuse, finiscono per far rimpiangere la guasconeria venata di horror de Il Principe dei Ladri. Resta giusto la soddisfazione di vedere i titoli di testa e coda di un blockbuster hollywoodiano affrescati (è proprio il caso di dirlo) dal bravo animatore italiano Gianluigi Toccafondo.
Robin Hood – Ridley Scott (Usa, 2010)
Alfonso Mastrantonio ci parla dell'ultimo film di Ridley Scott, Robin Hood, la recensione...