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Run with the hunted di John Swab, Festa del Cinema di Roma: recensione

Se perdi una famiglia, ce n’è un’altra pronta ad accoglierti. Ma a quale prezzo?
È la storia di Oscar, bambino reo di aver commesso, seppur ai danni di un uomo spregevole e per amore della sua migliore amica Loux, il suo primo – fatalmente di una lunga serie – gesto efferato. Costretto alla fuga, errante in quel di Tulsa, Oklahoma, entra allora a far parte della “famiglia di giochi rotti” cui lo introduce Peaches, sua coetanea e alter ego. Si tratta di una gang di piccoli criminali addestrati dal mentore Birdie (Ron Perlman) che non hanno altro posto nel mondo per sentirsi a casa se non quello sporco e sgangherato delle strade, della baracca.

Sporco e sgangherato, come questo Run with the hunted diretto dal già controverso John Swab di Let Me Make You a Martyr, con Marilyn Manson a vestire i panni del killer. Affezionato alla messa in scena delle periferie, quelle di un’America assente che non elargisce più neppure i propri sogni, e quelle creative di chi, difforme rispetto a un pensiero dominante, può sentirsi accetto in un altrove cinematografico, confeziona un film forse intenzionalmente irrisolto che mette davanti agli occhi sì delle criticità strutturali, ma pure delle persistenti questioni teoriche.

Un balzo avanti nel tempo conduce lì dove “il dono della disperazione” ha cresciuto i suoi eletti: quindici anni dopo tutto è perduto, nulla è edulcorato nella recita delle parti che figura un orizzonte stagnante in cui ognuno, anche e soprattutto dentro le istituzioni, è corrotto; una wasteland suburbana dei sentimenti dove l’unico spazio residuo per le relazioni umane è quello insalubre della dipendenza emotiva.

Gli adulti Oscar (Micheal Pitt) e Peaches (Drew Hemingway), a loro volta guide sbandate di altri lost boys, ragazzi perduti, ne sono i due volti emblematici, vittime e carnefici, complementari e parassiti l’uno per l’altra, tragicamente opposti dai viscidi interessi di un burattinaio (Perlman) che ha già dimostrato di non avere scrupoli nel voltare le spalle alle sue creature.

L’ineluttabile, annunciato ripresentarsi di un passato sommerso (Loux) trascina i due verso un destino dal respiro shakespeariano che sembra però contemplare una via di fuga: correre con la preda. Ma il prezzo, si diceva, è la redenzione impossibile; in definitiva correre con la preda significa ancora e sempre essere cacciatori.

Run with the hunted è un oggetto complesso: vacuo nell’incapacità di approfondire i nuclei tematici e di motivare le scelte dei suoi protagonisti, oppure sofisticato nell’omettere di farlo programmaticamente, abbozzando a una storia le cui figurine siano di proposito lo stereotipo degli ultimi in favore di un sottotesto che parli di resistenza a un modello collaudato.

Mozzato sul finale, si rimette a uno sbigottimento che obbliga alla sospensione temporanea del giudizio.

Di sicuro si direbbe un ottimo pilot televisivo, ma il punto è proprio che non vuole esserlo.

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