lunedì, Novembre 18, 2024

Safari di Ulrich Seidl: la recensione

Un film atroce. Ormai la definizione anni Settanta di celluloid atrocity, appioppata ai film tutto sommato vitalistici di John Waters, è stata superata dalla rivoluzione digitale, ma Ulrich Seidl resta uno dei pochi registi capaci di riprodurre lo sguardo fisso, impietoso, spesso complice di certo cinema dei tempi andati (Makavejev, Dedodato, Jacopetti e Prosperi, ma anche Craven e Hooper agli esordi). Un cinema che filma, insegue, riproduce l’atrocità. Oggi, in piena era schizofrenica del politicamente corretto, Seidl riesce a portare avanti un discorso al limite dell’exploitation mantenendosi sul filo del rasoio, ripulendo la polpa al cuore del film con un distacco formale fatto di inquadrature geometriche, composte come arazzi, e con l’apparente assenza della figura registica. Al contrario di Herzog, sempre coprotagonista dei propri documentari (in carne e ossa, voce off, Virgilio di viaggi all’inferno), Seidl c’è ma non si vede. Gli esemplari umani rispondono alle sue domande conversando tra loro, quasi fantasticando su desideri e mondi ideali. Il regista li pedina, li aizza e liscia loro il pelo, ma non vi è traccia di interazioni tra i protagonisti e la troupe. Eppure ogni «bella» immagine, foto con cadaveri comprese, è un quadro affastellato e studiato con la pignoleria di un Wes Anderson.

Film atroce, Safari. Che mantiene quello che promette fin dal titolo: nel 2017 c’è ancora gente – in questo caso germanofona – che va in Africa, probabilmente in Namibia, per impallinare grandi animali selvatici in via di estinzione. Il tutto in una riserva di caccia privata, proprietà di un austriaco. E con l’aiuto della manovalanza locale, che vive in baraccopoli e mangia i resti della caccia grossa. Non bisogna avere lo stomaco sensibile per provare disgusto: spesso, anzi, il disgusto più profondo emerge durante le scene senza fucili. La lezione di George A. Romero si conferma anche qui. Il peggio siamo noi. Noi e le parole che usiamo per indorare le efferatezze che ci piacciono tanto.

Safari si colloca sulla scia di due film recenti a marca Seidl. Liebe (2012), per come prosegue l’indagine sul neocolonialismo tedesco in Africa; Im Keller (2014), di cui pare la versione all’aria aperta: guilty pleasures senza vergogna. Il territorio africano sembra un luna park per ricchi, raggiungibile dalla Mitteleuropa con uno schiocco di dita. Non a caso, il film si apre con un cacciatore che suona il corno sul limitare di una foresta austriaca, e gli orgogliosi protagonisti (suprematisti?) di questo spaccato orrorifico si travestono ritualmente da cacciatori, usano il gergo dei cacciatori, si credono dei cacciatori ancestrali. Weidmannsheil, si dicono l’un l’altro per congratularsi davanti alla preda. La ridicolaggine del tutto farebbe breccia se solo il raccapriccio non la lasciasse in secondo piano.

Secondo Seidl, Safari sarebbe un film sull’«amore animale» dell’uccisione, sull’atto di uccidere. Gli mancano tuttavia la vertigine e il pudore delle opere di Joshua Oppenheimer. Il rischio di parlare coi carnefici. Cos’è, in fin dei conti, Safari? Una spedizione con tanto di sherpa. A Seidl il merito di una messinscena senza filtri, frontale come un incidente.

 

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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