domenica, Dicembre 22, 2024

San Andreas di Brad Peyton: la recensione

Non è certamente lo spessore dei personaggi che interessa a Brad Peyton e allo sceneggiatore Carlton Cuse, formatosi sin dalla fine degli anni ottanta in ambito televisivo (Lost, Bates Motel, The Returned) perché San Andreas è un disaster movie animato da un principio performativo che fa pensare all’accumulo di esibizioni nei film legati alla street dance. Ma a differenza di titoli come Step Up 3D in San Andreas la relazione tra corpi e spazio è determinata da una distanza abissale tra CGI e performance, tanto che le possibilità di piegare l’ambiente per favorire lo svolgimento della quest sono esponenziali e soggette ad una mutazione completamente virtuale, niente a che vedere con la libertà di movimento del parkour a prescindere che questo si verifichi in un set ricostruito o nello spazio urbano.

Tra i corpi trascinati da George Miller nella polvere del deserto per due ore di azione e quelli immersi nella realtà simulativa di San Andreas, ai secondi manca il trauma di un cinema fisico che per Peyton si risolve nella licenza di trasformare ogni cosa secondo le leggi della modellazione grafica.

Sin dalla prima sequenza di recupero dove Ray (Dwayne Johnson) spinge l’elicottero di soccorso “sulle ventitrè” per salvare una ragazza intrappolata nella sua macchina e sospesa miracolosamente sullo scivolo di un precipizio, tutte le leggi gravitazionali vengono bellamente ignorate per favorire le deformazioni di uno spazio impossibile il cui unico scopo è quello di creare ostacoli visivi da superare, sempre più grandi.
Tutta la prima parte del film osservata da Ray a bordo del velivolo si apre su questa voragine digitale da una prospettiva che è il nostro stesso punto di vista rispetto allo spettacolo di distruzione, ovvero un piacere puramente visuale raggiunto mentre ci godiamo il cataclisma panoramico.

La relazione è quella tra interfaccia e simulazione e a poco serve il racconto famigliare incorporato nel gioco degli effetti digitali, vera sostanza performativa del film, perché non è la coesione intorno al nucleo che interessa a Peyton come al contrario accadeva ne “La guerra dei mondi”, uno dei film più crudeli di Spielberg che all’interno dell’apocalisse prossima ventura ancora manteneva tutta la libertà dello sguardo Fordiano in relazione alle figure nel paesaggio.

San Andreas in questo senso gioca sulla sorpresa senza sorprendere realmente perché mette al centro uno schema chiarissimo, sottoposto sin dall’inizio ad un cambio arbitrario della configurazione visiva. Vengono in mente per paradosso i primi giochi con il chroma keying nei video degli anni ottanta dove i corpi fluttuanti si muovevano davanti una seconda immagine, spesso una skyline; tanto quelli erano imperfetti e ancora vivi nel rendere percepibile il gioco delle sovrimpressioni, quanto questi sono perfetti nel dissimulare lo stacco, tranne quando le macerie cadono addosso ai corpi rivelandone la sostanza digitale.

Quando Ray cerca disperatamente di rianimare la figlia Blake (Alexandra Daddario) in uno dei rari corpo a corpo del film, il tentativo si svolge in due momenti per dimostrare la tenacia del personaggio principale e la sua volontà di sanare tutti i sensi di colpa legati alla scomparsa della seconda figlia durante una discesa di rafting condivisa. Dopo aver dato per spacciata Blake, Ray ci riprova con un secondo, estremo massaggio cardiaco, ma tutto il pathos è già altrove, anestetizzato insieme alle numerose morti che si verificano nel film, trattate con quell’elasticità giocosa tipica degli adventure-survival game il cui scopo è certamente la sopravvivenza ma in una dimensione schematica legata all’abilità di interpretare i trucchi della progettazione.

Rianimare Blake o superare la muraglia d’acqua generata dallo tsunami, per Ray è una questione puramente agonistica, lo dimostrano i riferimenti espliciti a Disaster: Day of Crisis, il videogame prodotto dalla Monolith Soft e pubblicato nel 2008 dalla Nintendo, dove il responsabile del team di soccorso Losangelino, anche lui chiamato Ray e come il Ray di San Andreas reduce di guerra, si trova a saltare da un disastro all’altro da una prospettiva di gioco in terza persona per salvare se stesso e la comunità da una grave calamità naturale, memore della morte del suo miglior amico in circostanze simili.

Del trauma dei due Ray, quello ideato da Brad Peyton e il personaggio dell’adventure Nintendo,  non percepiamo minimamente la tensione drammatica, quello che ci interessa è immaginarci al centro di una simulazione adrenalinica che ci consenta di raggiungere lo score più alto, oppure, come in questo caso dove non si vince niente, un orgasmo da luna park.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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