venerdì, Novembre 22, 2024

Sátántangó di Béla Tarr

E’ possibile leggere nello speciale di approfondimento su Béla Tarr, le analisi su:

Dannazione
Satantango
Le armonie di Werckmeister
The Man from London
The Turin Horse

450 minuti di film  per 150 inquadrature, spesso di 10/12 minuti, al limite della durata delle bobine di pellicola 35 mm.

La scena di apertura, quasi 9 minuti, con mucche che escono dalla stalla e si muovono verso destra fino a scomparire, dà la misura di quel che sta iniziando, una ricerca visiva che reinventa il tempo del cinema, una rappresentazione minimalista della realtà paradossalmente priva di realismo, segnata piuttosto dalla lentezza intensa dello sguardo, carrellate interminabili e primi piani ad inquadrare un volto, a cogliere un’ombra, un taglio di luce, additando in ciò che è manifesto la spessa corteccia che riveste l’impenetrabile, testardaggine cognitiva che torna a guardare il suo oggetto all’infinito, osserva l’uomo fino a scoprirne i pensieri senza indagare nei processi psicologici, perchè uomini, tempo, paesaggio, natura e artificio si svelano come “presenza, rappresentazione non solo sociale, ma anche ontologica e cosmica. –  dice il regista – Un film non racconta una storia. La sua funzione è un’altra. Deve connettersi con le persone, capire la vita quotidiana. E, quindi, capire la natura umana e perché siamo come siamo. Come possiamo commettere peccati, come ci tradiamo l’un l’altro e ciò che ci muove. Noi siamo interessati alla esistenza e alla presenza di attori e attrici, quindi la meta-comunicazione è importante, ancor più che la comunicazione verbale. Su questa base, non è difficile da mettere tutto nel tempo e nello spazio”.
Film inflessibile nello sviluppo monotono dell’evento, procede irrefrenabile verso una catastrofe silenziosa e fatalisticamente attesa, tragedia della solitudine impotente che toglie voce e umanità ai personaggi, li svuota di ogni intenzione comunicativa, fa scandire i momenti da gesti uguali, parole autoreferenziali, nulla che freni il parossismo della routine che soffoca, nel grigio squallore di una puszta magiara fangosa, battuta da una pioggia incessante, deturpata da tristi reperti di architettura sovietica e rovine fatiscenti di antiche glorie austro-ungariche.

E’ il “tempo dell’ indifferenza“, nel suo etimo base, tutto è uguale a tutto in una vita che esclude possibilità di relazioni che sviluppino varietà, calore, ciò che accade è spesso contemporaneo a qualcos’altro, circolarità e incastri cronologici a ripetizione introducono scene viste da occhi diversi, un suono ossessivo e riverberante arriva da distanze siderali, musica cosmica, appena percettibile oltre i momenti di danza ubriaca dentro il bar dei disperati al suono di una fisarmonica. Frequenti piani sequenza di alta tensione espressiva mettono il tempo al centro del linguaggio”, impongono il ritmo ripetitivo del tempo reale a questa amara riflessione sulla miseria del mondo, sulla desolazione spirituale di rapporti umani desertificati, osservati in una contemplazione profonda che nulla concede alla fretta, al disordine, alla disattenzione. Lo spettatore viene attirato, come inglobato nello spazio filmico, fino a sentirlo come il suo spazio, il suo tempo, la durata dello sguardo sulle cose è quella del suo sguardo reale, non viziato da tagli di montaggio che raccontano e mostrano realtà altre da quella che scorre autentica, con le sue voragini nascoste, gli enigmi irrisolti, i volti impenetrabili. Uomini ripresi di spalle camminano a lungo in controluce inseguiti dal vento che spazza foglie e cartacce sul selciato e le spinge davanti ai loro passi, sembra che non arriveranno mai da qualche parte, e, semplicemente, noi li guardiamo camminare; il grasso, vecchio e asmatico dottore seduto in postazione fissa davanti alla finestra, guarda cosa succede fuori e annota quel nulla da cui traspare tutto, poi si versa da bere con rituale meticoloso e ripetitivo, e di nuovo scrive qualcosa con la matita gracchiante sui quadernetti. E’ sua la voce narrante che recita brani di una sceneggiatura scritta da Tarr in collaborazione con László Krasznahorkai, autore del romanzo da cui è tratto il film, e lui decreterà la fine della storia inchiodando assi alla finestra, così che il buio totale scenda per lunghi minuti sullo schermo, mentre scorrono le stesse parole dell’inizio: Un mattino sul finir di ottobre, non molto prima che le prime gocce delle lunghe ed insofferenti piogge d’autunno cadessero sull’inaridita spaccata terra ad ovest della fattoria, così che la maleodorante palude rendeva le strade impercorribili fino al primo freddo, isolando persino la città, Futaki fu svegliato dal suono delle campane. La chiesa più vicina era a 8 km a sud-ovest del vecchio campo di Hochmeiss, una solitaria cappella. Non solo non v’erano campane lì, ma lo stesso campanile era crollato durante la guerra…

Il dottore usa anche un binocolo, il campo visivo fuori della finestra è inquadrato a volte dai due cerchi ottici che  puntano la finestra di fronte e la tendina che si alza, spostata da Futaki, frugano sull’aia, inquadrano una gallina, vecchi copertoni, pozzanghere, finchè un cane randagio, spelacchiato, sporco e  e affamato, viene a rovistare in primo piano chiudendo lo sfondo. Si avverte che qualcosa sta per succedere, molto è già successo, eppure su tutto grava un’inerzia torpida, un tempo sospeso tra reale e irreale che crea attesa e frustrazione insieme, microsequenze di poche battute informano su questa piccola comunità di contadini ungheresi che affrontano il fallimento del loro progetto collettivo al tramonto dell’impero sovietico. L’ultima paga sta per essere consegnata, ma c’è aria di imbroglio in giro, qualcuno trama per scappare col malloppo.
La notizia del ritorno di Irimiás e Petrina, però, blocca tutto piombando come un incubo, e non sapremo mai chi siano effettivamente i due. Il primo è ascetico e messianico nel cappottone che avvolge il suo lungo corpo, sguardo misterioso e passo spiritato, linguaggio convenzionale, enfatico, paternalistico, tipico di un leader politico o di un imbonitore sinistro (“Irimias, che significa “Geremia”, è un messia. Tutti i messia sono generalmente solo spie ordinarie. Ci possono essere nazioni più fortunate sulla Terra che hanno messia regolari. Io non ne conosco nessuno, ma non sono andato ancora sulla luna – ironizza Tarr in un’intervista). (continua nella pagina successiva…)

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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