martedì, Novembre 5, 2024

Sátántangó di Béla Tarr

L’altro, sua spalla e forse discepolo, è tarchiato e massiccio, un contadino divoratore di grassi pezzi di maiale, ed entrambi si muovono come il negativo della famosa coppia di Cervantes. Inquietanti membri del villaggio dati per morti un anno e mezzo prima, appaiono e scompaiono incarnati in un ruolo ambiguo, contraddittorio, fumoso, perfettamente coerente con il tono, lo spirito e la mistificazione assunta a norma di vita da un regime totalitario che sembra averli ingaggiati come emissari per una missione di cui non si dice niente che serva a capire, si tratta però di manipolare gli abitanti del paese per sloggiarli di là e separarli, dopo aver consegnato a lui i loro ultimi soldi. Le due lunghe sezioni all’interno nel commissariato, all’inizio e alla fine del film, avvalorano questa ricostruzione, e i discorsi del commissario: qui tutto dipende dal mio umore… ordine e libertà … la gente non ama la libertà, ne ha paura, ma la libertà non ha nulla di spaventoso…L’ordine al contrario spesso può fare paura …o lavorate per me o non avrete scelta…

più la relazione finale di Irimias sui membri della comunità, battuta a macchina dai due funzionari di polizia in una sequenza allucinata di quindici minuti, bastano per far piombare nel clima più cupo da Stato di Polizia questo angolo di mondo dimenticato da Dio. Irimiás è rispettato e temuto da tutti, truffatore carismatico convincerà la maggior parte dei contadini rimasti a dargli i soldi per finanziare una seconda comunità, e l’ottusa e fatalistica accondiscendenza del gruppo, quel loro volersi fidare oltre ogni ragionevole dubbio, li condanna a quell’entropia fisica e mentale che trova attimi di vitalità residua solo nel consumo di alcool e in quel “tango di Satana” ripreso per mezz’ora al centro del film, spartiacque nella coreografia dei movimenti di macchina fra i dodici movimenti, sei di andata e sei di ritorno della vicenda, i tempi di un tango, nel bar dove i personaggi si riuniscono tutti prima di avviarsi verso la resa finale.

“La musica del tango è la naturale colonna sonora di una vita emarginata e violenta”

diceva Borges, e qui la violenza c’è tutta, è la danza del diavolo, e la messa in scena aperta all’improvvisazione, unita alla straordinaria tecnica di recitazione e regia, dà vita ad una sequenza di agghiacciante realismo (Tarr ha dichiarato che gli attori erano veramente ubriachi durante le riprese).

“Tutte le persone con cui lavoriamo sono scelte per la loro personalità, che siano attori professionisti, lavoratori o attori indipendenti. Essi sono come sono…

Non c’è allegoria nei miei film o qualsiasi altro tipo di simbolo. La metafisica è lontana dal film. Un film è sempre qualcosa di specifico, l’obiettivo non può che registrare delle cose reali, presenti, e quindi non ci può essere alcuna allegoria. Nei miei film le scene sono molto semplici e ben definite, e cerchiamo di cogliere il valore della vita. Abbiamo una vita ed è come viverla che conta. Le vite dei miei personaggi mi interessano. Per me nulla è sacro, tranne la vita.” (Bela Tarr)

Per me nulla è sacro, tranne la vita.

Parole per capire  lo struggente epicedio sulla morte di Estike, la piccolina che giocava col gatto, che aveva nascosto poche monete nella terra e poi non c’erano più, che aveva preso il veleno per topi e aveva ucciso il gatto prima di prenderlo lei, quel mattino nebbioso sotto gli alberi, sola, dopo una notte passata a camminare nel bosco, dopo aver guardato dietro la finestra del bar i grandi che ballavano avvinazzati ed esser stata scacciata dal dottore in uscita coatta per rifornirsi di alcool. Estike muore, composta, con il suo gatto vicino che ha portato con sé, stecchito dalla paralisi indotta dal veleno.

“Sì – ella si disse dolcemente – gli angeli vedono e comprendono”. | Si sentiva serena dentro, gli alberi, la strada, la pioggia e la notte… tutto irradiava pace. | “Tutto quello che accade è bene” pensò. | Tutto stava diventando semplice alla fine. Richiamò alla memoria gli eventi del giorno precedente, sorrise non appena capì come le cose si univano tra loro.

Sentì che quegli avvenimenti non erano il risultato del caso ma c’era un indicibile e magnifico significato che li legava. E sapeva che non era sola, poiché tutte le cose e le persone, suo padre lassù, sua madre, i suoi fratelli, il dottore, il gatto, le acacie, questa strada fangosa, il cielo, la notte, dipendevano da lei. Proprio come se da lei dipendesse tutto.

Non aveva motivo di essere preoccupata, sapeva che i suoi angeli avevano programmato tutto.

 Il film si divide qui, nella sequenza successiva si torna al tango disperato, la madre di Estike entra anche lei nel locale e beve come gli altri, chiede se qualcuno ha visto la figlia, le dicono di no. Tutto riprende a scorrere con lentezza e il tanto atteso Irimias arriverà e pronuncerà il discorso funebre sulla povera Estike che credeva negli angeli.

Ma Irimias non è un angelo.

Sátántangó è un’opera di sublime bellezza, parlarne è comunque e sempre inadeguato, le parole non bastano, va guardato “con il cuore e con la mente”.

La gente, se guarda con il cuore e la mente, se si fida dei propri occhi, può capire il nostro lavoro, che è abbastanza semplice. E forse quelle persone che vanno al cinema escono un po’ cambiate, leggermente diverse da quelle persone che stavano entrando, e anche se non escono completamente trasformate, hanno qualcosa in più nel loro cuore. Se ci riusciamo, siamo felici e soddisfatti. Se ti senti più vicino alle persone che hai appena visto sullo schermo, se sei colpito dalla bellezza della povertà, allora abbiamo raggiunto il nostro obiettivo, ci siamo riusciti. Abbiamo voluto mostrare al pubblico il mondo reale, rappresentato da pochi sullo schermo. Stabilito questo principio, abbiamo pensato che eravamo in grado di creare film a basso budget, in bianco e nero, 16mm, macchina fotografica portatile, con attori non professionisti, molti primi piani dei loro volti in modo da mostrarli con i loro problemi sociali. Abbiamo raggiunto una rappresentazione non solo sociale, ma anche ontologica e cosmica. Anche il tempo era un problema, pioveva tutto il tempo e abbiamo deciso che ci sarebbe stata pioggia per tutto il tempo. Per creare una disperazione completa. La più disperata che abbiamo, la speranza che non c’è più. (Bela Tarr)

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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