È sempre stato molto esaltato il contrasto tra sacro e profano che Buttò rappresenta nelle sue raffigurazioni, corpi che sono peculiarità dello spirito, la sostanza lussuriosa che racconta tutta la mistica essenza dell’involucro carnale.
Il dolore come necessaria espiazione, non sempre del peccato, forse del piacere. Un peccato slegato dalle convenzioni della cultura religiosa occidentale, solo apparentemente rappresentato come fatto pubblico, esibito, ostentato. Il peccato esposto si manifesta come atto privato e laico, rende il sesso e la sessualità un fatto sacro nel compimento stesso del rito autocelebrativo, nel sacrificio doloroso. Un’estasi santificante che non può fare a meno di oggetti e cimeli per esaltare il misticismo insito in ogni scena. I personaggi sono pieni della santità del proprio corpo, figure stagliate nello sfondo buio, profondo, protagonisti del palcoscenico eretto ad uso esclusivo del rito che sta per compiersi.
La ricercatezza dei gesti, delle vesti, dei soggetti e la tecnica matura e consapevole rendono ogni tavola una suggestione ammaliante, una questione aperta agli occhi dello spettatore che è invitato ad interpretare liberamente l’emozione che ogni opera suscita inevitabilmente.
I contrasti sono evidenti e sfacciatamente proposti. L’ironico gioco con lo spettatore è la genialità di ogni soggetto. Nulla può essere scontato, intuito a priori.
Intima catarsi del peccato spirituale che si rinnova nella violazione della carne.
Un percorso individuale e corale allo stesso tempo attraverso la bellezza, unica trasgressione che mai può trasfigurare in peccato da occultare ma che ostenta in ogni sua forma il diritto ad essere esercitata.