domenica, Settembre 8, 2024

Se Son Rose di Leonardo Pieraccioni: la recensione

Si occupa del “futuro” Leonardo Giustini, giornalista cinquantenne che scrive di nuove tecnologie per il web, applicazioni e linguaggi più vicini ai nativi digitali che alla sua personale esperienza. Si occupa del futuro, ma sarà presto costretto a fare i conti con il suo passato sentimentale grazie agli stimoli di Yolanda, la figlia quindicenne stanca di vederlo sempre da solo e incapace di legarsi affettivamente a qualcuno. Sarà proprio lei a provocare azioni e reazioni, inviando un sms a tutte le ex di Leonardo:  “Sono cambiato. Riproviamoci!”. 
Senza attivare la strategia del ricordo mediante flashback, Leonardo Pieraccioni accende la commedia con la ricerca del passato nel presente, sollecitando oltre al meccanismo annunciato della gag, una riflessione sul tempo e le occasioni perdute. Ripercorre quindi spazi, luoghi e volti irrimediabilmente fissati nella memoria e recuperabili solo a patto di negare la forza creativa del cambiamento. 
Tra le donne che gli rispondono, ce n’è una che non può effettivamente farlo, Angelica, affetta da una forma precoce di oblio che la rende impermeabile al peso del tempo come un malato di alzheimer. Simulato o reale, lo spazio bianco che la donna occupa, le consente di rifugiarsi nel disegno e nella pittura e di parlare con estrema lucidità a Leonardo, offrendo forse allo spettatore una chiave di lettura per lo stesso film di Pieraccioni. La memoria, dice Angelica, è una zavorra troppo pesante da portarsi dietro; la vita necessita di un bagaglio leggero.
Vivere nel momento, proprio per questo, nonostante i desideri di Yolanda, Leonardo non abdica ad uno stile di vita che da sempre rileva nell’istante il punto più alto e più nobile dell’esperienza. In termini cinematografici è la frizione irresistibile tra ricordo e cambiamento, che nello spazio della scena, crea i presupposti per innescare una serie di gag costruite sul contrasto tra apparenza e volontà, desiderio e realtà. 
La cura di ormoni che ha modificato le attitudini e il corpo di Fioretta, così pesante che avrebbe potuto “cambiare anche il PD”, i figli di Elettra che parlano al contrario come se fossero due piccoli, terribili posseduti, il ritratto di Leonardo vergato da Angelica durante la conversazione sulle tette di lei quando era un’adolescente, il “telefono senza fili” condiviso con Benedetta, la cui austerità torna ad esser schiettezza quando appunto può tornare a giocare come una bambina ed infine il lago che avvolge nuovamente il giornalista e la sua ex moglie come ai tempi in cui l’amore bruciava, ma con un’energia completamente diversa.

Tutte situazioni dove il protagonista fugge da uno spazio che riconosce come famigliare e che allo stesso tempo gli è totalmente estraneo, proprio perché recuperare sembra un’aberrazione, un’operazione contro i tempi della (propria) natura, un orologio che non può essere più aggiustato. 

Come già accadeva in “Un fantastico via vai”, il contrasto generazionale mostra una ferita ancora aperta tra immaginazione e vita, tanto da inserirsi nello stesso solco e con la stesso sguardo malinconico. A un certo punto e dal niente, mentre Leonardo viaggia nella sua FIAT 850, sbuca una coppia di giocolieri che lo salutano, quasi un residuo dal film del 2013. 
Più dei personaggi “fuori posto” de “Il professor cenerentolo” , collocati nello spazio centripeto dell’Isola e vivissimi perché gli si opponevano, la forza centrifuga di “Se son rose” risiede in questo costante esser fuori luogo del giornalista cinquantenne, perennemente in fuga e alla ricerca di un gesto d’amore che non deperisca, che non diventi abitudine forzata, immagine della morte al lavoro che procede nera contro il ricordo di se stessi, quello che non vorrebbe mai seppellire l’energia amorale della fanciullezza.

Da una parte siamo dalle parti di una tradizione italiana che da Francesco Nuti fino al Verdone di “Al lupo al lupo” cerca le occasioni della commedia nella dimensione intima e personale e in quella malinconia del vivere che nel film del regista romano si chiudeva sul ritratto dei figli disegnato dal padre, un improvviso vedersi visti risolto nell’attimo di quel disegno e nella convergenza di tutte le contraddizioni del tempo e dell’esser generati a immagine e somiglianza.

Per Pieraccioni quel disegno, oltre che dal ritratto di Angela che lo vede ancora come un ragazzo, viene sostituito dai selfie che scatta ad ogni incontro, piccole testimonianze dell’istante, forza del gesto e allo stesso tempo immagine sempre imprecisa, con Pieraccioni un po’ decentrato, fuori quadro, fuori fuoco, personaggio assente e presente. 

Il movimento è rovesciato rispetto al film di Verdone che citavamo; non i figli sulle tracce del Padre, delle proprie radici e quindi di una definizione della propria identità, ma la ricerca di uno spazio vitale in una nuova immagine di se stessi.
Il sorriso di Martina Pieraccioni allora diventa chiarissimo e salvifico in questo racconto picaresco senza compagni di sventura, una ricerca del proprio SE nello scambio d’amore più puro e disinteressato possibile, quello che non ha bisogno né di auto-rappresentarsi né di immaginarsi la vita come un’impossibile e noiosissima eternità.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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