Forte di quarant’anni di corti, serie tv, videoclip e lungometraggi animati, il marchio Aardman Animation è ormai in tutto il mondo sinonimo del concetto stesso di claymation di qualità. Dopo i successi colti in partnership con i giganti Dreamworks e Sony, lo studio di animazione britannico si affaccia per la prima volta sul grande schermo contando sulle sue sole forze produttive e lo fa con un soggetto fortemente rappresentativo della propria storia e dell’umorismo che ha pervaso sin qui le sue opere.
L’intraprendente pecora Shaun è infatti comparsa per la prima volta in veste spalla di Wallace e Gromit nel corto da Oscar del 1992 Una Tosatura Perfetta, e dal 2007 è titolare di una serie animata esportata in 170 paesi, Italia compresa. Con Shaun torna al cinema, ad un decennio da La Maledizione del Coniglio Mannaro, l’ambientazione bucolica e scanzonata che ha accompagnato le origini Aardman, in cui umani e animali dai comportamenti antropomorfi interagiscono sullo stesso piano in una sequela torrenziale di gag mute, corredate dal minimale commento sonoro di un buffo gramelot umano-animalesco.
Frustrata dalla monotonia della vita di campagna e inviperita per aver perso il suo curatissimo ciuffo nel corso dell’ultima tosatura, Shaun coinvolge l’intero gregge nel suo piano per mettere momentaneamente fuori causa il fattore e godersi la sua assenza scorazzando senza pensieri tra i campi, la stalla e le mura di casa.
Quasi nulla va come previsto, e la buffa compagnia ovina si troverà, insieme al coscenzioso cane da guardia Bitzer, ad abbandonare l’idillio agreste per avventurarsi nel cuore ostile della vicina metropoli, dove il fattore si è smarrito, intontito da un’amnesia.
Proprio il classico movimento dalla campagna alla città funge da principale motore comico della vicenda: problematizza infatti il già menzoniato rapporto pressoché paritario (in Wallace e Gromit simbiotico e collaborativo, in questo caso quasi filiale) tra personaggi umani e animali.
L’innocente ribellione guidata da Shaun sovverte i labili rapporti gerarchici e permette a pecore oche e maiali di impadronirsi della fattoria con la stessa sciamannata anarchia di adolescenti coi genitori in vacanza. Gli spazi urbani, al contrario, acutizzano le gerarchie, vietano accessi e restringono il campo d’azione degli animali, costretti (nelle scene più esilaranti ma anche più sottilmente drammatiche del film) a camuffarsi e a mimare i nostri bizzarri comportamenti per non venire catturati dal nevrotico accalappiacani, circondati col nastro adesivo e divisi in celle a farsi spietata concorrenza per l’affetto umano.
Seppur con una vena inventiva lontana dall’entusiasmante floridità di La Maledizione del Coniglio Mannaro, Shaun, vita da pecora sa fare comunque sfoggio di lunghe concatenazioni di gag corali nelle quali, al netto di alcune geniali stoccate ai social network e alla modernità digitale, a farla da padrone è la comicità slapstick più classica e in certi casi abusata, che affonda inevitabilmente le radici negli insegnamenti dei grandi padri Chaplin, Keaton e Tati, per ribadire la volontà di un ritorno ad un animazione orgogliosamente “vecchia scuola”.
Sugli stessi binari si muove il ricorso minimo all’integrazione di effetti digitali contribuisce a mantenere (di gran lunga inferiore a quella vista in Pirati!, Giù per il Tubo e altre collaborazioni dello studio con le major), che rinforza l’alone di autenticità artigianale che da sempre conferisce calore all’animazione in plastilina.
Il risultato è entertainment genuino, realmente meritorio della logora etichetta “per tutta la famiglia”, senza paura di risultare meno stratificato o complesso di tanti altri attuali prodotti di un mondo dell’animazione che si è ormai (per fortuna, ma a volte anche purtroppo) svincolato dall’accusa di essere roba per bambini.