American Gothic, American Psycho. La premiata ditta Scorsese – Di Caprio torna sul grande schermo con una storia scritta da Laeta Kalogridis a partire dal romanzo di Dennis Lehane. La prima inquadratura è Leo chino sul water mentre vomita. Mal di mare. Chi l’avrebbe mai detto, eh! Il giocoso riferimento a Titanic è scontato così come è automatico attendersi, dallo Scorsese maturo e ultraconsacrato, un’esperienza audiovisiva difficile da dimenticare. E infatti, Shutter Island non tradisce aspettative scopofile. L’isola-prigione, isola-manicomio del titolo nasce dalla sovrapposizione del Castello di Kafka al dipinto di Böcklin Insel der toten (1883), e il genere cinematografico che il Maestro imbraccia in questa occasione è il gotico. File under: fari inquietanti, mare in tempesta, insanità mentale plurima, traumi passati presenti e futuri, immagini come pungoli e plot più zigzagante del finale di El. Tanto anguilloso, il plot, che riportarlo è più inutile che disonesto. Possiamo dire, tuttavia, che il film è ambientato nel 1954 e che il protagonista fu tra coloro che liberò Dachau sotto la neve. Il primo dei traumi che ha segnato la sua vita e la sua mente.
Shutter Island è un film visionario, e questa è anche la sua rovina. All’inizio si resta incantati dal solidissimo mestiere di Scorsese e dalle prime sequenze intinte nel sogno, dominate da un “terzo occhio” che non ha eguali nel cinema mainstream. Poi, drammaticamente, quando ci si avvia verso l’ultimo terzo di film, la visionarietà sostituisce lo sguardo, il virtuosismo la messa in scena. Come accade molto spesso a Scorsese da vent’anni a questa parte, il film si carica fino a diventare un gomitolo di immagini che racimola ogni cosa e tritura, prima fra tutte, la curiosità dello spettatore. A spettacolo finito ci si chiede che senso abbia aver visto un film in cui l’unica realtà accertata è quella dei flashback. Per carità, Shutter Island è una visione appagante. Il cast è magnifico e diretto con una precisione certosina (citiamo almeno Max von Sydow in gran forma ed Elias Koteas che compare per due minuti con addosso tutte le cicatrici di Crash), la musica classica scelta da Robbie Robertson sembra quasi una colonna sonora originale di Bernard Hermann e non c’è una sola scena fuori posto. Sul film nel suo complesso, tuttavia, gravano dubbi marzulliani. Tutto dipende, nello spettatore, se il cinema va inteso come una via di fuga o come uno strumento per mettere a fuoco la realtà. In questa ottica, Shutter Island è escapismo puro.