Shutter Island è un film visionario, e questa è anche la sua rovina. All’inizio si resta incantati dal solidissimo mestiere di Scorsese e dalle prime sequenze intinte nel sogno, dominate da un “terzo occhio” che non ha eguali nel cinema mainstream. Poi, drammaticamente, quando ci si avvia verso l’ultimo terzo di film, la visionarietà sostituisce lo sguardo, il virtuosismo la messa in scena. Come accade molto spesso a Scorsese da vent’anni a questa parte, il film si carica fino a diventare un gomitolo di immagini che racimola ogni cosa e tritura, prima fra tutte, la curiosità dello spettatore. A spettacolo finito ci si chiede che senso abbia aver visto un film in cui l’unica realtà accertata è quella dei flashback. Per carità, Shutter Island è una visione appagante. Il cast è magnifico e diretto con una precisione certosina (citiamo almeno Max von Sydow in gran forma ed Elias Koteas che compare per due minuti con addosso tutte le cicatrici di Crash), la musica classica scelta da Robbie Robertson sembra quasi una colonna sonora originale di Bernard Hermann e non c’è una sola scena fuori posto. Sul film nel suo complesso, tuttavia, gravano dubbi marzulliani. Tutto dipende, nello spettatore, se il cinema va inteso come una via di fuga o come uno strumento per mettere a fuoco la realtà. In questa ottica, Shutter Island è escapismo puro.