venerdì, Novembre 22, 2024

Mortacci di Sergio Citti: la recensione

Essere vivi o essere morti è la stessa cosa (Pier Paolo Pasolini “La terra vista dalla luna” )

La farsa e la tragedia vivono in un costante equilibrio nel cinema di Sergio Citti, equilibrio precario, sempre pronto a deflagrare in una risata liberatoria, in uno sberleffo anarchico, a precipitare nel dramma umano. E’ un cinema crepuscolare che si nutre di un mondo che non esiste più, un sogno, e proprio in quanto sogno aleggia nel tempo e nello spazio, lontano da ogni tentazione di realismo, troppo viscerale e onesto per aggrapparsi alla superficie vischiosa e intellettualistica del surrealismo.

“Mortacci” è un film del 1989, è la storia dei morti che abitano un cimitero, della loro vita da morti, di come sono morti. L’affabulazione compie il suo percorso dal particolare del racconto di ogni singolo personaggio, di ogni morto, fino a ricomporre un quadro corale che si permea di una visione della vita e della morte mai disperata, da epicureo, quale Citti si è spesso definito; in un’intervista (( Sergio Toffetti “Detti e contraddetti – Conversazione con Sergio Citti” )) rilasciata a Sergio Toffetti parlando di “Storie scellerate” il regista parla della propria visione della morte come “non una cosa brutta, negativa, ma una cosa normale, allegra, “viva”, perchè è parte della vita
Le immagini nel cinema di Citti fioriscono dalle parole, dal racconto, da sempre il regista si è definito un narratore, una sorta di menestrello di borgata che porta in sé tutto il sapere di una radicata tradizione orale. Citti stesso afferma: “cerco di fare il cinema come se fosse un racconto, una favola, di raccontarla così come se fosse a voce, a braccio“; (( Sergio Toffetti “Detti e contraddetti – Conversazione con Sergio Citti” )). In “Mortacci” la storia di ogni personaggio muove dall’evocazione, supportata da un leggero carrello in avanti, per farci entrare nel falso mondo del flashback, gemmazione della parola, menzogna del passato nella falsità della vita, rappresentata da un cinema che altro non è che finzione della finzione. Il rifiuto di ogni tautologia sta alla base del cinema di Citti, ed è proprio in questa ottica che si deve valutare l’aggettivo “naif” che spesso è ricorso in certa critica borghese, epiteto “razzista”, come aveva affermato Pasolini, che celava lo sguardo superbo e un po’ sdegnato della cultura dominante rispetto a una cultura subalterna, borgatara, sguaiata, ma piena di valore, di fame e di vita. Non inganna lo spettatore Citti, al contrario lo conduce nel mondo da favola del suo cinema, dove i desideri qualche volta si materializzano, dove sempre si è sospesi in un universo costruito, onirico, allucinato, pastorale.
La favola sui morti di Citti procede col ritmo lento del narrare, lasciando a ciascun attore il suo spazio di libertà, una libertà che cresce nella morte, uno sguardo distaccato e sereno, che contempla la vita, la pochezza degli esseri umani, il loro essere inesorabilmente incastrati nelle convenzioni, nella miseria, morale prima di tutto, nella vanità nel suo reiterarsi senza fine. Esemplare a tal proposito l’episodio di Malcolm McDowell, attore che interpreta un attore e che ripropone come in uno spettacolo teatrale, vero e falso al tempo stesso, poiché di un attore si tratta, pathos amoroso.
La morte voluta-imposta del soldatino Rubini si svolge in modo semplice, in linea con la visione del trapasso per Citti, entra in conflitto con la spettacolarizzazione che viene fatta dai vivi, dal surplus di senso e al tempo stesso di spietata cattiveria di cui è oggetto la morte di uomo nel mondo dei vivi, grottesca e allucinata visione cui fa da contrappeso la semplicità dell’aldilà, dove convivono sullo stesso piano attori e personaggi provenienti dalle più disparate realtà. Citti delinea un mondo dei morti davvero egualitario, senza distinzioni di classi, di estrazione sociale; attori e personaggi provenienti delle più disparate realtà finiranno per convivere tutti insieme, accomunati dalla morte e dal ricordo che ancora i vivi nutrono verso di loro, unico filo che li tiene ancora sospesi in un limbo gioioso, fino all’estinguersi dell’ultima memoria per evaporare in un altrove che Citti lascia irrisolto, non visto, offuscato dal vapore, dalla nebbia di una libera indeterminatezza.

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