Sono poche le personalità in grado di sfornare un film senza trama, fuori dal tempo e dalla geografia, che rapisce per un’ora e mezza e comunica lo stesso senso di solidità e completezza di una sceneggiatura di Billy Wilder.
Questa magia, irrazionale e al contempo concretissima, sanguigna, riesce al cattivo maestro per eccellenza del cinema americano, Abel Ferrara. Da anni cittadino di Roma, ossessionato da Pasolini e pasolinismi come Morrissey in trasferta, con Siberia il regista di tanti classici selvatici anni Ottanta e Novanta torna a conquistare la rilevanza nonchalante, spontanea, degli autori che non hanno bisogno di spiegare per sedurre.
E in Siberia le spiegazioni non vanno neanche in esilio: dialoghi in russo e yupik senza sottotitoli, passaggi dalle nevi al deserto alle foreste temperate senza soluzione di continuità, caverne popolate da corpi nudi e sofferenti e case in fiamme in cui si svolgono esecuzioni sommarie sotto gli occhi dei ragazzini. Una bimba che è un bimbo. Il sole rosso in un acquitrino sotterraneo. Tutto questo, e molto altro, va a comporre una traiettoria visionaria che a tratti pare un “Tree of Life” andato a male. In assenza della logica sono le pulsioni a dettar legge, a guidare lo sguardo.
Al centro di questo delirio deliberato, evidente alter ego del guru dietro la macchina da presa, un Willem Dafoe magnetico, fragile, che si sdoppia e a un certo punto mette su un 45 giri rosa: Runaway di Del Shannon. Il primo disco che lui, Willem (e forse anche Clint, il personaggio) ha acquistato da bambino. E allora ci sta pure che la foto ingiallita che appare sul finire del film sia proprio quella della famiglia Dafoe negli anni Sessanta.
È questo tipo di autenticità a pelle, estranea alla logica classica del racconto, a fare di Siberia un viaggio credibile, surreale sì ma non assimilabile a un mero esperimento d’avanguardia. Merito non solo di Ferrara, che da anni sperava di produrre lo script, ma anche del co-sceneggiatore Christ Zoist (subentrato di fatto a Nicholas St. John a partire dal 1997), del direttore della fotografia Stefano Falivene e dei suoi paesaggi innevati, dei droni ipnotici ideati da Neil Benezra.
Tirare in ballo la trascendenza con Abel Ferrara è prevedibile come nel caso di Schrader e Dreyer. Eppure con Siberia – titolo, va da sé, puramente metaforico – si ha l’impressione di assistere a un “Cattivo tenente” con tutte le scene diegetiche eliminate e il protagonista dedito solo a pianti isterici in chiesa o nudo, perso, al suono di un lento.
Persino l’uso di un pezzo metal spaccatimpani, Volcanos dei Bloodspot, che pare uscito da Lost Highway, s’integra alla perfezione nella natura e aggiunge senso a un livello preconscio.
Cinema sciamanico quello di Siberia, libero e selvaggio come il sogno d’un Jack London febbricitante.