domenica, Dicembre 22, 2024

Silence di Martin Scorsese: una fede senza fine in opere senza speranza

Lo scorso novembre Martin Scorsese “approda”, per così dire, per la prima volta in Vaticano dove incontra Papa Francesco; quest’ultimo riceve due doni molto particolari e significativi dal regista: un quadro della “Madonna delle nevi”, un dipinto su pergamena giapponese del diciassettesimo secolo venerato clandestinamente dai cristiani, oltre a un dipinto di un artista gesuita del 1662, simboli entrambi di una professione di fede silenziosa, nascosta e sofferente, uno dei tanti volti di una Chiesa, della quale emergono spesso incongruenze, fallacia ed atteggiamenti giudicanti.  Senz’altro aspetti che fanno più rumore delle opere benevole senza tornaconto e della sofferenza di chi non è libero di professare una qualsivoglia confessione.

Non è compito né interesse di chi scrive imbastire una disputa a riguardo; questo punto è semmai utile per individuare lo spostamento dello sguardo che Scorsese attua, nel mostrarci, nel bene e nel male, la furia e l’impotenza, la brutalità e la vittima, ed è solo un caso se ci troviamo di fronte ai cristiani perseguitati dai buddisti giapponesi nel ‘600.

Il fulcro è oltre questa specifica distinzione che è puramente fatto storico come molti altri.
Sgomberato il campo da questi aspetti, ci allontaniamo paradossalmente dalla spiritualità per partire nuovamente dal punto “ground zero” al quale apparteniamo noi tutti, esseri umani sbagliati, deboli, bugiardi e “senza speranza”, senza per questo non poter accedere agli strumenti che ci permettono di avvicinarci alla rivelazione del nostro spirito.

Per questo “Silence” è un film che non ha mai avuto uno specifico inizio (seppur sia stato voluto e “rincorso” per ben 28 anni), né tantomeno una conclusione: opera anche questa scaturita dalla lettura illuminante di un romanzo, l’omonimo di Shusaku Endo, come nel caso- scandalo ormai noto, de “L’ultima tentazione di Cristo”, tratto dall’opera di Nikos Kazantzakis, non molto distanti nell’ammettere l’innegabile presenza del desiderio anche ( e forse soprattutto) nella sfera dello spirituale con cui è in continuo scontro: “Trovo molto interessante l’idea che la natura umana di Gesù si battesse contro di lui perché non poteva concepire se stessa come Dio. Pensavo che questo scontro interno fosse altamente drammatico e avrebbe costretto le persone a prendere Gesù sul serio, o per lo meno, a rivalutare i suoi insegnamenti.”

E’ sull’imperituro che il film dipana il suo filo tutt’altro che senza spine: il senso della durata non c’entra, eccetto nei termini del “tempo della Storia”, poiché questa è utilizzata come strumento di supporto per andare a fondo nella ricerca dell’illuminazione che è rivelazione della mente, senza avere affatto l’ardire di riuscirci, liberando la storia da orpelli e nascondendoci la verità, che non emerge mai, dalle opere e omissioni dei padri gesuiti Rodrigues (Andrew Garfield) e Garrpe (Adam Driver).

Una piccola “bugia”, intenta a farci (ri)credere sulla professione di fede, qui disvelata pian piano nella sua fragilità, poiché “anche il rivolgersi a dio ammettendo di aver paura è pregare”, un segno d’umanità laddove sembrava doverci essere solamente il senso di colpa.

La fede, o meglio, l’ossessione per la fede ha da sempre accompagnato Scorsese sin dai tempi di frequentazione ai corsi preparatori per l’ingresso al seminario e trova nella realizzazione di questo film ‘inesauribile’ una rinnovata espressione di sé, attraverso una continua circumnavigazione dalla forza centripeta che lo ha portato via via ad avvicinarsi sempre maggiormente al fulcro dell’esistenza umana e alla realizzazione del film stesso, mai semplice e che pare aver seguito una logica “altra”, quella dei segni e dei simboli che sembrano qui prendere corpo e diventare spaventosamente attuali, se si pensa ai tempi che corrono.

Endless faith in hopless deeds”, una fede senza fine in opere senza speranza. Viene in mente questo verso in particolare, tratto da  “Sue (or in a season of crime)”, il singolo di David Bowie inciso nel 2014, quando si pensa in particolare alla perseveranza e alla volontà di sottoporsi “al volere divino” della missione e a quello prettamente umano che non lascia scampo e non si fa scrupoli: “Cui prodest?” e soprattutto: “Dove si trova il segno del divino? Che questo non risieda semplicemente nelle azioni dell’uomo?”.

In fondo sono opere senza speranza, quelle che portano i padri gesuiti ad abbracciare ‘religiosamente’ la missione che li spingerà in Giappone (durante le persecuzioni del ‘600, terminate nel 1637 con la ribellione di Shimabara, dove furono uccise 40.000 persone) con l’intento di tenere viva la fiamma della fede in Cristo, oltre che ritrovare il loro padre spirituale Cristóvão Ferreira (Liam Neeson), che ha perso, o forse ritrovato sé stesso. Un atto che può essere visto nel migliore o nel peggiore dei modi: nel segno dell’amore oppure nel segno dell’egoismo, come un atto misericordioso oppure un’imposizione.

E’ su questo sottilissimo filo che “Silence” si muove in punta di piedi, poiché il vortice sempre più cruento di torture e violenze sotto lo sguardo impotente dei padri gesuiti, diviene per loro un carico di responsabilità, un eco acuito nella coscienza dei credenti: “Morire per la propria fede? Oppure no? Dio vuole davvero questo?”, quesiti millenari che trovano una nuova attualizzazione nella contemporaneità, tra letture erronee e appropriazioni improprie.

Pare, però, che Scorsese ne faccia emergere anche un altro: “E’ possibile la coesistenza non violenta di punti di vista diametralmente opposti o inconciliabili?
C’è dunque un’altra storia del cinema, quella che contempla una filmografia della fede, che va da Borzage e passa da DeMille fino a Nicholas Ray, senza contare il cinema di Andrej Tarkovskij, percorsi possibili che dischiudono in parte il dibattito interno alla chiesa stessa, legato all’immagine e all’iconoclastia, una perdita progressiva del valore sacro dell’immagine, del simbolo e dell’analogia; natura stessa del linguaggio teologico.

Un quesito che si fa strada in “Silence” è quindi quello che si interroga sulle differenze culturali e sulle modalità con le quali queste sono o meno scese a patti nella logica che vede l’utilizzo di un linguaggio diverso, per dire la stessa cosa.

E’ nel segno del multilinguismo, infatti, che Scorsese suppone che non vi sia un’unica via, quella che da secoli si sono contesa tutte le religioni rivelate, compresa quella cattolica; è proprio a quel punto, quando si è raggiunta la sicurezza della conoscenza, che tutto viene meno e scivola via.

Una sicurezza che non è possibile e non è giusto trovare fino in fondo, che sarebbe la conclusione della ricerca personale, ciò che al contrario ci mantiene vivi e saldi a quello che maggiormente ci contraddistingue: la coscienza. Perciò viene da chiedersi se la concezione del simbolo sia esso stesso l’essenza della fede, se la paura dei “Kirishtian” giapponesi e il loro forte attaccamento al sacro contrassegno non ne sia la dimostrazione, nel senso del “bastare a sé stessi” o al contrario, di quel contrasto ravvisabile tra le esigenze materiali e quelle spirituali.

E’ lo stesso movimento interno che scuoteva l’ex attore shakespeariano Alexander nel “Sacrificio” di Tarkovskij, suo testamento spirituale, e che scuote lo spettatore nel suo modo di “farsi mistero” fino alla (non) fine, lasciando aperta l’incertezza che forse non sia la felicità ad essere il termine ultimo, lo scopo della nostra vita, o all’opposto vi sia spazio per la pacificazione, pur nell’irrequietezza di uno spirito silente e finalmente riconciliato con la sua natura più pura, libera dai dogmi.

Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini è curatrice della sezione corti per il Lucca Film Festival. Scrive di Cinema e Musica

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