I titoli di coda di Sils Maria, ultimo lavoro del critico/sceneggiatore/regista Olivier Assayas, sono accompagnati dal Canone di Pachelbel. Il Canone è una composizione polifonica barocca basata sul contrappunto. Alla medesima melodia si sovrappongono altre voci che ne riprendono, amplificandolo, il tema. La chiave sta qui. Nel film di Assayas, lo stesso motivo – teorico e narrativo – si moltiplica e si ripete in un gioco di specchi e di simmetrie fra personaggi e situazioni che ricorrono e si rincorrono. Il meccanismo è scoperto, volutamente artificioso, simbolicamente riprodotto nella miriade di supporti visivi – che siano finestre, cellulari, Ipad, televisori, schermi cinematografici – disseminati lungo il percorso.
Girato in 35 mm, Sils Maria è un saggio sulla rappresentazione che mette in scena la rappresentazione stessa, e il sottile confine che la separa dal reale.
Prologo/prima parte. Subito dopo la morte del suo mentore, il drammaturgo/regista Wilhelm Melchior, Maria Enders (Juliette Binoche), celebre attrice francese attrice di mezz’età, si vede offrire un ruolo nel nuovo adattamento teatrale di Maloja Snake, la pièce di Melchior che l’aveva lanciata. Nel rifacimento del regista semi-esordiente Klaus Diesterweg, a Maria spetta il ruolo di Helena, la donna d’affari sedotta e abbandonata dalla giovane amante/assistente Sigrid.
Vent’anni prima, la giovane Maria era stata la spregiudicata e bramosa Sigrid. Vent’anni dopo, Maria vorrebbe restare Sigrid, ma può essere soltanto Helena, la sua nemesi o la sua parte complementare. Il ruolo della carnefice spetta invece a Jo-Ann Ellis (Chloë Grace Moretz), starlette di Hollywood, mix parodistico fra Lindsay Lohan e chiunque altro assomigli vagamente a Selena Gomez o Miley Cyrus. Parte centrale/seconda parte. Fra ansie e memorie del passato, Maria Enders si rifugia nella località svizzera di Sils Maria, nell’ultima casa di Melchior, per provare le sue battute con l’aiuto della segretaria Valentine (Kristen Stewart), con cui Maria instaura un rapporto ambiguo e simbiotico. Mentre camminano in direzione del passo del Maloja, per assistere allo strano fenomeno atmosferico del serpente di nubi che avvolge la vallata, Valentine sparisce nel nulla. Epilogo. Qualche mese dopo, a Londra, Jo-Ann è inseguita dai paparazzi, dopo che la quasi-ex-moglie-del-suo-fidanzato, acclamato scrittore, ha cercato di togliersi la vita. Nel frattempo, la nuova versione di Maloja Snake sta per andare in scena.
Sulla lunga scia di Eva contro Eva, Sils Maria parrebbe un film sul mondo dello spettacolo e i suoi orchi, le invidie e i successi di cartapesta di un mondo che non può evitarsi di essere tragicamente fatuo, in cui il senso di morte incombente si traveste da seduzione. Infatti, a differenza di quanto accade nella pièce, dove qualcosa succede davvero, in Sils Maria l’attrazione non trova quasi mai sbocco. L’affinità elettiva di Maria con Melchior, il mix di disprezzo e desiderio per la vecchia fiamma Henryk Wald, la fascinazione morbosa esercitata da Valentine su Maria restano inappagati. A colmare il vuoto e il silenzio sono piuttosto gli amori fragorosi della non necessariamente così stupida Jo-Ann. Con uno straniante effetto di contrasto, quando Jo-Ann entra in scena per davvero (e non più attraverso uno schermo cinematografico/televisivo) indossa un vestitino bon ton e assiste a un concerto di Händel con il neo-fidanzato, intellettuale fintamente stropicciato sposato con una pittrice tedesca. In scena c’è il mix di contrapposizione e fascinazione fra il cinema/teatro indipendente/d’autore e il circuito main stream. Se Jo-Ann aspira, senza saperlo, a trovare l’unità, il disprezzo resta incarnato nel volto della Binoche, novella Norma Desmond, inquadrata mentre inforca gli occhiali 3D per assistere alle prodezze di Jo-Ann, impegnata in un film di passioni aliene e superpoteri. Tutto questo se rimaniamo in superficie.
Maloja Snake, la pièce teatrale dalle tinte fassbinderiane (Le lacrime amare di Petra von Kant su tutti) non si limita a mettere in scena una storia inventata, ma è esso stesso un oggetto cangiante e chimerico, il cui significato muta di continuo, a seconda di chi lo sta guardando: Maria, Valentine, Jo-Ann, Klaus, Henrik, tutti hanno la loro Helena e la loro Sigrid personali. Ciò che interessa a Assayas, attraverso il suo gioco sottile di specchi e di simmetrie, è piuttosto tratteggiare il confine labile fra realtà e messinscena, esplorare la finzione nell’arte e nella vita, lo scarto di tono fra l’immagine che si vorrebbe avere di se stessi e una realtà fintamente cercata (“forse ricordo solo quello che voglio ricordare”, dice Maria), ma mai conquistata. La dipendenza e l’attrazione di Maria nei confronti dell’assistente Valentine rispecchia quella di Helena per Sigrid. Il lato distruttivo e fagocitante del rapporto di Sigrid con Helena ritorna, con ritualità necessaria, in quello, appena abbozzato, di Jo-Ann con Maria, e si rivela nelle inquadrature finali, quando Jo-Ann inchioda Maria al suo ineluttabile annullamento. A sua volta, Jo-Ann è una piccola Sigrid, una rovina famiglie, che strappa il marito a un’altra donna la quale a sua volta, come Helena, sceglierà metaforicamente di sparire (o almeno di provarci). Chiusi in se stessi e nelle loro ansie personali, quasi tutti finiscono per cedere alla nebbia – con Valentine che si dissolve letteralmente nell’atmosfera, se ne va per non ritornare, anche lei come Helena nel finale di Maloja Snake – , si perdono come le montagne dell’Engadina avvolte nel serpente di nuvole, lo strano fenomeno che aveva affascinato Melchior nelle immagini in b/n del pionieristico documentario Das Wolkenphänomen von Maloja (Arnold Fanck, 1924).
Come Helena fa con Sigrid in Majola Snake, così in Sils Maria i personaggi esibiscono e ridefiniscono di continuo i propri stati d’animo. Al fondo c’è un segreto, ma non si scopre mai. Così, pur nell’evidenza dei loro gesti, i personaggi di Sils Maria restano lontani e ambigui, glaciali. Scolorano e svaniscono, come le nubi a forma di serpente – animale mutante, non a caso – fra le nubi dell’Engadina. Apparentemente racchiusa nella tripartizione che scandisce il tempo filmico – tre fasi ravvicinate nella vita di Maria –, la trama resta aperta e incompiuta. Perché, a differenza della pièce – il luogo dove c’è una storia da raccontare – la vita è orfana di una trama, si limita a essere un aggregato di fatti più o meno interessanti. Si snoda incerta e imprevedibile, ancora come il serpente del Maloja. Così, pur legati per temi e situazioni – dalla morte dello scrittore alla messinscena della nuova versione di Maloja Snake – i tre momenti in cui Assayas racchiude l’esistenza di Maria non disegnano un arco che si chiude in se stesso.
La messinscena è esibita, i dialoghi sono fittissimi, con le attrici seguite o aspettate dalla macchina da presa, che subito dopo allarga sulle vallate svizzere, sfiorando il lirismo. L’atmosfera è gelida, i sentimenti frenati. Eppure, come accade in Maloja Snake, ogni frase è volutamente rivelatrice, ai limiti del didascalismo. Assayas mette in parole il mondo interiore, fondendo il particolare (le ansie e i desideri dei singoli) nell’universale (la paura di essere oltrepassati, il senso del tempo che passa, l’inadeguatezza e il bisogno morboso dell’altro). A rendere più sottile il gioco di rimandi, interni ed esterni, contribuiscono i dettagli biografici: Juliette Binoche è la raffinata attrice francese di mezza età con trascorsi hollywoodiani, ma musa del cinema/teatro d’autore. Chloë Grace Moretz è la rampante attricetta da blockbuster. Nel frattempo, Kirsten Stewart, stravaccata sul divano, esamina l’ultima sceneggiatura offerta a Maria, chiedendosi, con ironia non troppo velata, che ci facciano lì i lupi mannari.